L'arte di rincretinire il nemico
Nessuno la padroneggia come Renzi, niente spiega meglio le sue alterne fortune. Una collezione di risentimenti
Scrivere di Matteo Renzi comporta sempre un gran numero di seccature (e infatti ogni volta che comincio mi chiedo perché mi prenda questo ingrato compito, dev’essere il mio modo di espiare i peccati di una qualche vita precedente): quando è in auge, a causa del gruppetto di adoratori, guardie del corpo e picchiatori virtuali che accorrerà puntualmente a difenderlo. Quando non lo è, e cioè più o meno ogni giorno dal 5 dicembre 2016 a oggi, perché accorreranno tutti gli altri. Il motivo è semplice e per capirlo basta riavvolgere il nastro della sua incredibile scalata al potere.
Altri saranno migliori di Renzi nell’arte di governo, nell’arte della guerra o nell’arte oratoria, ma nessuno può eguagliarlo nell’arte di rincretinire il nemico. Si tratti di avversari politici, rivali di partito o di schieramento, o anche semplicemente di giornalisti, intellettuali e conduttori televisivi ostili, nessuno come lui è capace di fare letteralmente perdere il lume della ragione, il senso dell’orientamento e ogni altro senso, ma specialmente quello della misura, anche a persone altrimenti ragionevolissime, note a tutti per intelligenza, mitezza e savoir-faire. Accademici illustrissimi, pensatori sottili, politici di lunghissimo corso: paradossalmente, si direbbe quasi che più lungo è il curriculum, insigne la figura, preclaro il cursus honorum, più sarà facile vederli abbandonarsi a espressioni da trivio, con gli occhi fuori dalle orbite, dinanzi a qualsiasi fregnaccia Renzi abbia detto o soltanto lasciato pensare, con le mani tremanti di sdegno a twittare contro di lui accuse di eversione, alto tradimento, colpo di stato, per una battuta di cattivo gusto o una scelta inopportuna, che in qualunque altro caso avrebbero meritato al massimo un’alzata di sopracciglio.
E’ questo, a mio parere, il vero segreto di Matteo Renzi, che spiega tanto il repentino successo, tra 2010 e 2013, quanto l’improvviso declino, dopo il 2016. E che soprattutto spiega la paradossale condizione in cui si trova oggi: il salvatore della patria più bistrattato che il mondo abbia mai visto, o se preferite – è sempre bene offrire anche la prospettiva rovesciata, quando si parla di Renzi – il più istituzionale dei sovversivi. Il leader politico che, stando al racconto dei medesimi osservatori, con il suo comportamento cinico e irresponsabile ha portato alla nascita del miglior governo possibile, da cui ciascuno degli indignati di ieri attende la salvezza di domani. Una descrizione talmente dissonante da avere stupito anche il resto del mondo. E forse la sintesi migliore è proprio nel titolo, benevolmente sfottente, del New York Times: “La manovra di Renzi è un capolavoro. E lui sarà il primo a dirtelo”. Avrebbero potuto aggiungere: e anche l’unico (o quasi).
La parabola non sarebbe comprensibile, tuttavia, senza osservare con attenzione il contesto politico-psicologico da cui ha preso avvio. Vale a dire la lotta per la leadership nel centrosinistra, dove Renzi ha lanciato la parola d’ordine più sfrontata ed eversiva (non dell’ordine costituzionale, ovviamente, ma della costituzione non scritta della politica italiana): la rottamazione.
A ripensarci oggi, è davvero incredibile come con quella parola d’ordine Renzi sia stato capace di suscitare tali e tanti entusiasmi, proprio tra coloro che più l’avrebbero detestato negli anni successivi, e soprattutto, colmo del paradosso, per gli stessi motivi (l’arroganza, la brutalità, l’egocentrismo). Personalmente, credo che la chiave di questo piccolo mistero stia nel contesto in cui è maturato.
Bisogna ricostruire, se non la storia, almeno la psicologia del tipico leader della sinistra, che è quanto di più diverso dal giovane rottamatore, dichiaratamente ambizioso e impaziente, ottimista, edonista e sorridente che nel 2010 lancia la sua sfida. Un discorso valido, attenzione, non solo per la sinistra che viene dal Partito comunista, ma anche per la sinistra dc (la sinistra proveniente dal Psi, specialmente dopo Bettino Craxi, ma non solo, meriterebbe invece un discorso a parte, ciò nondimeno esiste un limite alla quantità di incisi concatenati che posso ammonticchiare in una parentesi, quindi lo faremo un’altra volta).
Ebbene, la psicologia del leader della sinistra, almeno fino a quel momento, corrisponde a una tipologia ben precisa, che possiamo definire come quella del leader sacrificale. Non tanto – o non solo – nel senso che nove volte su dieci finirà sacrificato (dagli altri), quanto nel senso che si sacrifica, lui per primo, perché considera il duro fardello morale del comando come un peso che accetta non certo per piacer suo, ma per far piacere a dio, alla patria o perlomeno al partito. Un sacrificio che gli costa moltissimo, naturalmente.
Di qui, specialmente negli ex comunisti, una curiosa varietà di morale rivoluzionaria che vede nel proprio sacrificio, nell’atto stesso cioè di indossare una così pesante corona, la giustificazione di ogni possibile sacrificio altrui, a cominciare da tutti coloro che gli stanno più vicino. Persone che si mostrerebbero veramente ingrate, per non dire proprio dei traditori, se dopo averlo spinto a caricarsi sulle spalle l’onere di guidare il partito e magari pure il paese, costringendolo per giunta a rimangiarsi spessissimo molti dei suoi più cari principi, si rifiutassero di fare la propria parte, e non si lasciassero sacrificare sulla scacchiera senza rompere tanto le palle.
Solo tenendo presente questa rappresentazione si coglie, per coloro che a suo tempo l’hanno apprezzata (io non sono tra questi), il valore catartico, liberatorio, trasgressivo di quella famosa intervista a Repubblica dell’allora sindaco di Firenze, che il 29 agosto 2010 scandisce: “Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani. Basta. E’ il momento della rottamazione. Senza incentivi”. Il barbaro e violento rituale della rottamazione è il perfetto rovesciamento della dinamica sacrificale sopra descritta, reso possibile anzitutto dallo strappo che produce immediatamente nella sospensione d’incredulità, nel velo d’ipocrisia che rendeva possibile quella rappresentazione. Perché, non appena si profili all’orizzonte qualcuno seriamente intenzionato a risparmiargli un simile sacrificio, ecco che il leader sacrificale perde ogni punto di riferimento e ogni autocontrollo, uscendo completamente dal ruolo, come un attore colpito da un’improvvisa amnesia. D’un tratto percepisce il vuoto attorno a sé: nessuno che lo preghi di sacrificarsi, anzi. Avverte i primi mugugni, i borbottii, i colpi di tosse, mentre persino i più fidati guardano da un’altra parte. E’ così che comincia, il patatrac.
Quello che accade dopo è troppo noto e troppo triste perché ci sia bisogno di raccontarlo nei dettagli. Più interessante è cercare di capire come mai una simile reazione chimica si produca proprio con Renzi, e almeno finora, praticamente solo con lui. La mia tesi è che si tratti di qualcosa di simile a quello che doveva capitare ai raffinati intellettuali della scuola sovietica, quando si vedevano sconfitti, in una partita di scacchi, cioè nel loro regno, nella più nobile e alta delle discipline intellettuali, da Bobby Fischer. Quel ragazzone dall’espressione un po’ tonta, semplicemente non in grado di condurre una normale conversazione che non vertesse sugli scacchi. “Adoro il momento in cui spezzo l’amor proprio di un avversario”, diceva, con una battuta che non sarebbe difficile immaginare sulle labbra di Renzi. E se il leader di Italia viva magari non l’avrà mai detta, di sicuro deve averla pensata mille volte, osservando la rabbia incontenibile di tanti di quegli intellettuali che lo avevano sempre guardato dall’alto in basso e proprio non riuscivano a capacitarsi di essersi fatti giocare da lui.
La sua scalata al potere non sarebbe stata così rapida e la sua vittoria così totale, almeno in quel momento, se non avesse avuto questo straordinario e quasi sovrannaturale potere di accecare i nemici, di suscitare nel loro ego ferito una reazione così violenta e inconsulta da indurli in ogni possibile errore, spianandogli la strada e finendo per renderlo simpatico a gran parte degli italiani, ma prima di tutto a coloro che avevano avuto maggiormente a che fare con gli sconfitti (contrariamente a una narrazione diffusa e cara allo stesso Renzi, gli ultimissimi ad abbandonarlo sono stati proprio i militanti del Pd, che hanno continuato a rieleggerlo in tutti i congressi, anche quando alle successive elezioni gli italiani avrebbero dimostrato di non volerne più sapere).
Allo stesso modo non si potrebbero spiegare le sue disavventure e il suo rapido declino, senza tenere conto di quello stesso processo, che con l’andare del tempo accumulava nemici giurati, feriti nel proprio narcisismo e pronti a tutto, pur di vederlo nella polvere. La grande alleanza antirenziana da Forza Nuova a Rifondazione comunista che si formò nel 2016, in occasione del referendum istituzionale su cui lo stesso Renzi ebbe l’ingenuità di giocarsi la testa, non sarebbe mai stata così estesa e così furiosa, senza il formidabile propellente di tanti orgogli feriti. Un processo alimentato, è bene ricordarlo, sempre da quegli stessi difetti (arroganza, brutalità, egocentrismo) che a suo tempo, a seconda del bersaglio e dell’occasione, erano stati considerati come altrettante qualità (coraggio, schiettezza, leadership). Ma sempre difetti restavano. Soprattutto in politica.
E così, un giorno dopo l’altro, il coro è diventato assordante – anche nel mondo dell’informazione, che nella fase ascendente lo aveva coccolato, compiaciuto e anche coadiuvato nella bastonatura degli avversari con la consueta solerte professionalità – fino a quando Mr 40 per cento è diventato il signor Quattro, poi Tre e un domani forse anche Zero per cento. A meno che – ma è un’ipotesi davvero estrema, che tenderei a escludere – Renzi non si riveli semplicemente il caso più estremo di quel classico ciclo di esaltazione-linciaggio-riabilitazione che caratterizza da sempre la politica italiana (nel qual caso, dalla gogna, dovrebbe passare direttamente al Quirinale, magari al prossimo giro, ma qui sto sconfinando nella letteratura). Nel frattempo, con l’ultima operazione, mandando a casa Giuseppe Conte e favorendo l’arrivo di Mario Draghi, ha dato il colpo di grazia alla stabilità emotiva dei suoi ex compagni del Partito democratico, e di buona parte dei suoi odiatori di sinistra (che sono ovviamente il 90 per cento del totale).
A titolo di esempio, prendete il profilo twitter di Emanuele Felice, persona mite, studioso serio e apprezzato dei problemi dell’economia e del Mezzogiorno, responsabile economico nella segreteria del Pd di Nicola Zingaretti. E seguite il filo dei suoi tweet negli ultimi giorni della crisi di governo.
3 febbraio. “Io se c’è una cosa che mi rimprovero, è di non essere andati fino in fondo su Renzi e il suo banditismo politico. Di essere tornati a trattare con lui. Forse era inevitabile, i numeri in Parlamento sono quelli che sono, fra l’altro per colpa del suo trasformismo”.
7 febbraio. “Per chi come me ha sempre difeso l’Europa e l’euro, è una soddisfazione vedere Salvini dire di sì a Draghi. Però mi preoccupa anche. Non si va da nessuna parte con tutti dentro, rendiamocene conto. I problemi dell’Italia richiedono delle scelte, e qui ci sono programmi opposti”.
9 febbraio. “Con l’appoggio della Lega a Draghi si chiude forse una battaglia epocale: quella sull’europeismo. Abbiamo vinto. Ciò non toglie che Pd e Lega continuano ad avere due visioni opposte dell’Italia. Per uscire dal declino, bisognerà fare delle scelte”.
E infine, poche ore dopo. “Draghi: riforma fiscale progressiva, senza condoni, in linea con l’Europa e con meno tasse sul lavoro. È quello che chiede il Pd. Propone inoltre più integrazione in Europa e rivendica la storia europea, la strada che abbiamo fatto insieme finora. Bene. Benissimo”. Come si vede, è lo stesso entusiasmo che si poteva leggere facilmente, nonostante la mascherina, sul volto di Nicola Zingaretti nel corso della sua relazione alla direzione di giovedì, nelle stesse ore in cui i grillini votavano su Rousseau. Anche in quella relazione erano numerose, accanto agli elogi a Draghi e alla rivendicazione di una primogenitura europeista, le accuse a Italia viva, responsabile di avere provocato quella “crisi al buio” che il Pd aveva subito giustamente denunciato, e dalla quale, come sappiamo, il governo Draghi è nato.
Se la contraddizione tra l’entusiasmo dichiarato per l’esito e la denuncia indignata della causa vi risulta incomprensibile, evidentemente, è perché non siete mai stati in una relazione disfunzionale. Perché, per vostra fortuna, non avete mai conosciuto quello che oggi si usa definire un rapporto tossico. Sapreste altrimenti che nei momenti difficili il vostro partner, e soprattutto l’ex, tutto può essere capace di perdonarvi e persino di dimenticare, ma non di aver avuto ragione.