Roma. Che ci sia una malizia scientemente perseguita contro di lui, lo pensano in pochi. E, per paradossale che paia, sono spesso da ricercare tra quanti lo stimano di più, il Renzi. “Matteo ha compiuto un capolavoro tattico, portandosi dietro tutto il Pd”, sibila Mauro Laus, senatore dem di rito ex renziano. “Ma dopo aver sconvolto il quadro politico, non poteva uscirne come unico vincitore”. E forse in parte sta anche qui, il senso di quella apparente restaurazione benedetta dal Colle e da Mario Draghi nel ridefinire l’organigramma del potere. E’ la volontà di riportare gli adulti nella stanza nell’ora più buia. (Valentini segue a pagina quattro)
Ecco allora che, con la benedizione del Quirinale, le chiavi del retrobottega di Palazzo Chigi sono state messe nelle sapienti mani di Roberto Garofoli. Lo stesso che, all’arrivo di Renzi alla guida del governo, lasciò il suo presidio di segretario generale a Piazza Colonna per trasferirsi al Mef con Pier Carlo Padoan. Era l’epoca della rottamazione, della messa in discussione dei tabù della politica romana. E così era giusto che sottosegretario alla Presidenza del Consiglio era giusto diventasse un sindaco emiliano, Graziano Delrio, portandosi dietro quel Roberto Bonaretti che era suo uomo di fiducia a Reggio Emilia. E lo stesso, solo con una certa malagrazia in più, avvenne anche con l’allora capo del Dagl, Carlo Deodato, sostituito da Renzi con la ex capa dei vigili urbani di Firenze Antonella Manzione. Reintegrati entrambi, ora: Deodato e Garofoli (che gestirà anche la partita tutta politica sui posti di sottogoverno).
Poi c’è Antonio Funiciello, scelto da Draghi come capo di gabinetto, che in conflitto col renzismo (lui che pure renziano lo era stato, e convintamente) c’era entrato quando, nel governo di Paolo Gentiloni di cui era capo dello staff, il rapporto del premier con l’allora sottosegretaria Maria Elena Boschi si guastò sempre più irrimediabilmente. “Una diga a Palazzo Chigi”, sogghigna un ex ministro del Pd, preannunciando anche la promozione di Andrea Orlando a capo delegazione dem. Renzi in verità alza le spalle al sentir parlare di poltrone. Dice che “non è per questo che abbiamo fatto tutto questo”, mentre si gode la nascita di un governo a cui nessuno, tranne lui, credeva. “Il mio obiettivo è creare un centro europeista che s’ispiri a Macron, in una prospettiva di legge proporzionale”. Pazienza, insomma, se si dovrà accettare qualche ritorno poco gradito a Palazzo Chigi. E del resto, a voler ragionare col bilancino delle nomine, ci sarebbe allora da dire che proprio Garofoli ha scelto come capo di gabinetto Daria Perrotta, fresca di vittoria del concorso come magistrato presso la Corte dei Conti, che al fianco della Boschi ha lavorato come consigliera giuridica ai tempi delle riforme costituzionali. E di filiazione boschiana andrebbe poi considerato anche Roberto Cerreto, se davvero sarà lui – come pare – il capo di gabinetto di Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica che con la Leopolda ha lunga frequentazione e ora avrà una discreta voce in capitolo nella partita del Recovery plan. L’impressione è dunque che al Colle, piuttosto che preoccuparsi di limitare lo spazio di manovra di Renzi, abbiano suonato la fine della ricreazione: quella cominciata per certi versi con la stagione della scalata al cielo del sindaco di Firenze, e proseguita poi con lo sbraco grilloleghista (quando civil servant come Garofoli o Daniele Franco, neo ministro dell’Economia, venivano additati come “pezzi di m...”).
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