Non ricominciamo col loden
Ricordate Monti? L’esaltazione del tecnico nasconde spesso una deprecazione della politica simile a quella dei populisti
Molte sono le insidie che costellano il cammino del premier timorato, specialmente quando si tratti di qualcuno che viene da fuori, ignaro dei meccanismi e dei riti della politica. Nessuna insidia è però più pericolosa dell’adulazione, corale, praticamente unanime, con cui è d’uso accoglierlo sui mezzi di comunicazione. Droga potentissima che ha già dato a illustri predecessori l’ebbrezza dell’ascesa improvvisa, l’illusione di poter scalare le montagne con un salto, per farli poi risvegliare a valle, senza sapere nemmeno come, in piena campagna.
Perché le strade della politica sono una continua e diabolica serpentina, e basta un attimo di distrazione per non vedere la brusca svolta della storia, tirare dritto col piglio del predestinato al Quirinale e ritrovarsi nello stagno del gruppo misto. I propri progetti di riforma che svolazzano nell’aria, le ginocchia sbucciate e in petto nessuna medaglia, ma solo una gran voglia di piangere.
Accadde così nel novembre del 2011, ai tempi di un altro Super Mario, perché poi la fantasia, hai voglia a dire che siamo italiani e che la creatività ce l’abbiamo nel sangue, è sempre quella che è, anche nella scelta dei nomignoli. E insomma si sapeva che con lui, Mario Monti, venivano tempi duri, sballottati com’eravamo tra crisi economica globale e crisi dell’euro. Di qui, probabilmente, l’origine di un certo lessico destinato a segnare la politica italiana.
E’ uno strano effetto che si produce all’improvviso nell’aria, mentre si parla, tra sostantivi e aggettivi, come per lo sfregamento di due pietre da cui guizzi improvvisa la scintilla. E la scintilla decisiva, in questo caso, scoccò dalla penna del cronista cui lo spirito del tempo suggerì per la prima volta l’incongrua espressione: “Un sobrio loden”. Proprio così. Il professor Monti, da poco nominato presidente del Consiglio, indossava “un sobrio loden”. Annotazione curiosa – non si ricordano suoi predecessori a Palazzo Chigi vestiti come cantanti Heavy Metal o come sultani del Brunei – eppure risolutiva, per una ragione non facilmente spiegabile, se non con quella strana elettricità dell’aria, o con una lontana associazione alla vecchia storia degli statisti di un tempo e del cappotto rivoltato (lo si diceva di Enrico De Nicola, ad esempio, ma anche di Alcide De Gasperi). Potremmo chiamarla la legge di reciproca attrazione e compenetrabilità dei luoghi comuni. Fatto sta che sobrietà e loden, da quel giorno, divennero sinonimi.
Sono passati dieci anni da allora, e la polarizzazione tra tecnocrati e populisti, fautori della competenza e teorici dell’uno vale uno, ha finito per offuscare il molto che li accomuna. Perché l’esaltazione del tecnico nasconde spesso, e a volte non la nasconde nemmeno, una deprecazione della politica e della democrazia che assomiglia, a suo modo, a quella dei populisti. E’ un Vaffa day in francese. Un sovversivismo snob.
L’elogio del loden è l’altra faccia del bipolarismo maggioritario. E’ il grande abbraccio collettivo che precede la rissa, il volemose bene che prelude al vaffa, l’ipocrisia che rende omaggio alla virtù, ma solo un attimo prima di sacrificarla sull’altare del vizio, per dimostrare a tutti che alla fine era un’impostura anche quella, riderci sopra e tornare allegramente alla vita prima. E’ un rito anti-catartico, o solo fintamente catartico, in realtà violentemente conservativo, furbescamente gattopardesco, sommamente italiano. E’ l’essenza della politica nazionale. Ed è la ragione per cui negli ultimi trent’anni non c’è partito dell’arco parlamentare che abbia resistito più di qualche lustro – anche quelli più longevi, come Forza Italia, conservano il nome di prima solo perché nel frattempo sono morti e risorti – mentre i dirigenti rimanevano gli stessi, con rare eccezioni, debitamente punite e prontamente riassorbite.
Altrove, di norma, nei grandi partiti si assiste a un regolare ricambio dei gruppi dirigenti. In Italia, da circa tre decenni, sono i gruppi dirigenti a promuovere un regolare ricambio di partiti. Non c’è leader politico che non ne abbia in curriculum una manciata.
Come tutto questo si possa conciliare e di fatto coincida temporalmente con quella rivoluzione maggioritaria che avrebbe dovuto finirla con simili vizi, identificati tutti, all’inizio degli anni Novanta, nella deprecata Prima Repubblica (quando i partiti erano sei o sette e i gruppi dirigenti, con le dovute eccezioni, duravano al massimo un paio di decenni, non un paio di generazioni), è argomento che mi porterebbe troppo lontano. Lo lascio qui come appunto per le forze politiche che dovrebbero sostenere Draghi, e per lo stesso Draghi, casomai passasse da queste parti, come uno di quei messaggi nella bottiglia inviati dal futuro tipici di certe serie americane, per risolvere il problema del loop spazio-temporale: se qualcosa dovesse andare storto, la soluzione è il proporzionale.
E se adesso, miei piccoli e ingenui lettori, vi state chiedendo che cosa dovrebbe importargliene a Draghi di tutto questo, mi dispiace dovervelo dire, ma significa che non avete colto il punto più importante. Perché la retorica del loden, la stessa che ancora oggi fa scrivere nelle cronache del dibattito in Parlamento frasi come “al presidente Draghi portano un bicchiere d’acqua, la prova che non è un marziano” (praticamente a un passo dal “come è umano lei”) ha un’origine ben precisa. Il suo calco politico-culturale è infatti nella celebre pera di Luigi Einaudi, e cioè in un articolo scritto per il Corriere della sera da Ennio Flaiano. Un ritratto del presidente della Repubblica che in una cena al Quirinale chiede chi voglia dividere con lui un frutto troppo grande, pensate un po’. Articolo che si conclude con una notazione geniale e pessimistica, tipica dell’autore: “Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la repubblica delle pere indivise”.
Volendo esagerare un po’, si potrebbe dire che la pera di Einaudi, progenitrice del loden di Monti, conteneva già il seme da cui sarebbe nato il vaffa grillino. Anche nell’elogio del loden era contenuto infatti un invito alla ribellione. Una ribellione, attenzione, che non sale dal basso, ma cala dall’alto, ed è sempre a doppio taglio. Perché non vede l’ora di poter trasformare anche l’oggetto dell’iniziale esaltazione, in quanto contraltare di una politica inconcludente e corrotta, nel capro espiatorio di tutti i propri peccati elettorali.
Qui sta anche l’inghippo, o per meglio dire la fregatura: perché con lo stesso loden con cui ti loderanno, al primo giro di vento, tenteranno in ogni modo d’impiccarti, rinfacciandotelo per anni, neanche fosse stata un’idea tua. Uno dei più tipici tic dei giornalisti italiani – ma forse dovrei dire degli italiani e basta – consiste infatti nel rimproverare al proprio idolo, dopo averlo abbattuto, tutte le esagerazioni partorite per innalzarlo, attribuendogliene la paternità.
Una spia di un simile meccanismo si è già vista con il primo errore del nuovo Super Mario. Quel lapsus sul numero dei posti occupati in terapia intensiva, due milioni invece di duemila, che ha fatto correre un brivido per la platea degli osservatori, subito pronti a lodare anche quello come segno di emozione, e dunque di umanità. Ma il compiacimento con cui in tanti si sono soffermati su questo incredibile accadimento, il fatto che proprio lui, Mario Draghi, l’uomo dei numeri, potesse dire una cosa per un’altra, avrebbe dovuto insospettire.
“Mario Draghi ha fatto un discorso da uomo colto, perfetto, che ancora una volta ha dimostrato la sua elevata statura”. Ha assicurato il linguista Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, promuovendo il premier senza esitazioni. “Inutile andare a caccia di imperfezioni”.
Ho pensato a lungo che l’Accademia della Crusca fosse il Comitato tecnico-scientifico della lingua italiana. Mi sbagliavo: l’Italia intera non è altro che un gigantesco Comitato tecnico-scientifico. E’ il motivo per cui tanti giornalisti esprimono spesso la loro insofferenza per tutti questi virologi, epidemiologi e affini, che ci spiegano sempre dopo quello che non hanno capito prima. Che poi sarebbe per l’appunto la funzione dei giornalisti. E dei sondaggisti, naturalmente.
“Quasi 8 italiani su 10 (nel campione intervistato di Demos) manifestano un giudizio positivo nei confronti del governo. Ma il consenso ‘personale’ del nuovo presidente del Consiglio è ancora più ampio: 84 per cento”, osserva su Repubblica Ilvo Diamanti, proprio mentre le Camere votano la fiducia (“Con una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana. Ma non molto più larga di quella espressa dalla popolazione”) non però al governo di Mario Draghi. A quello di Mario Monti. “E’ bastata una settimana – scrive infatti il 20 novembre 2011 – perché il clima d’opinione svoltasse dalla depressione all’euforia”.
La depressione, com’è noto, non tarderà a ritornare. Del resto, si sa che le parole di un sondaggista a un committente pazzo di lui devi scriverle nel vento, nell’acqua che scorre. Chiedere per conferma a Giuseppe Conte.
“L’ultimo sondaggio di Termometro Politico, realizzato tra il 26 e il 28 gennaio, racconta che nei giorni delle consultazioni il consenso nei confronti del presidente del Consiglio (Conte, ndr) è tornato a crescere. Tanto che il 32,6 per cento degli intervistati lo vorrebbe ancora a Palazzo Chigi, contro appena un 15,4 per cento di preferenze per l’ex presidente della Bce” (Il Fatto quotidiano, 29 gennaio 2021).
“Mario Draghi o Giuseppe Conte, chi avrebbe preferito come prossimo presidente del Consiglio?”, è la domanda del sondaggio presentato da Nando Pagnoncelli. Mario Draghi: 52 per cento. Giuseppe Conte: 29. Commento a caldo del conduttore, Giovanni Floris: “Così passa la gloria del mondo?” (DiMartedì, La7, 9 febbraio 2021).
Troppo lungo sarebbe l’elenco completo di coloro che hanno visto squagliarsi le proprie vette di consenso come le nevi dell’anno passato, prima ancora di arrivare alle urne, o anche, tragicamente, giusto al momento dello spoglio. Chiedere per conferma a Gianfranco Fini, durante una breve stagione accreditato come possibile leader del centrosinistra, o se preferite, fortissimo punto di riferimento dei progressisti ante litteram.
Rispetto a tali precedenti e a tali predecessori, va detto, Mario Draghi parte decisamente avvantaggiato. Rispetto a Monti, ad esempio, ha il vantaggio di avere già un cane. Più di un analista è convinto infatti che l’inizio delle sfortune politiche del senatore a vita risalga proprio al momento in cui in diretta televisiva Daria Bignardi gliene mise sulle ginocchia uno (Empy, da “empatia”, come lo ribattezzò il suo professore adottivo). Non finì benissimo, né per Monti, apparso non particolarmente disinvolto nella prova, né per il cane, almeno a giudicare dalle successive dichiarazioni del professore. “Per chi non mi ama, io sono quello che in uno studio tv si è ritrovato tra le braccia, di sorpresa, un cagnolino – disse su Raitre, ospite di Lucia Annunziata – a opera di una sua collega poco corretta. E definirla collega è dire molto”. La risposta della collega arrivò puntualmente via Twitter. E fu, bisogna dire, assai più sobria. “Si commenta da solo. E ne ho già scritto sei mesi fa. Bau”.
Ma il piccolo Empy, ovunque si trovi adesso, non è certo l’unica vittima innocente delle svolte improvvise della politica italiana.
“Obama quando aveva un problema diceva ai suoi collaboratori ‘chiamate Mario’”, ha ricordato Bruno Tabacci, che appena una settimana prima, quando aveva un problema, chiamava Lello Ciampolillo. Il quale, per la verità, a Draghi la fiducia l’ha negata.
In compenso, gliel’ha data Matteo Salvini.
“E’ vero, solo gli sciocchi non cambiano idea, e io che sono un grillino della prima ora, a differenza di quei grillini che per fortuna sono la minoranza, giudico positivo il gesto di Salvini”, ha commentato subito Adriano Celentano (per la proprietà transitiva, draghiano della seconda ora). Ma il suo è davvero un eccesso di modestia, perché Celentano è molto più che un grillino della prima ora, e potrebbe con buona ragione vantare il titolo di pioniere e precursore.
Il secondo vantaggio di Draghi rispetto a Monti sta nella relativa brevità della sua luna di miele con la politica. Un inizio, certo, tutt’altro che incoraggiante, con i ministri che cominciano ad attaccarsi due giorni dopo il giuramento; con Salvini che si diverte a mettere in discussione persino la moneta unica; con il Partito democratico che promuove martedì in Senato un intergruppo parlamentare con Leu e Movimento 5 stelle, pubblicamente elogiato da Giuseppe Conte il mercoledì, bocciato lo stesso giorno dal gruppo parlamentare del Pd alla Camera e rinnegato il giorno dopo pure dal segretario.
Proprio questo gigantesco casino ha avuto per Draghi, tutto sommato, almeno un risvolto positivo. Perché in tal modo capricci, bisticci e crisi di nervi della sua maggioranza hanno occupato giornali e talk-show che altrimenti sarebbero stati pieni soltanto dei commenti al suo sobrio smart watch e alla toccante umiltà con cui ha chiesto il permesso prima di sedersi. L’estrema difficoltà del compito che ha davanti e il suo essere di fatto l’ultima carta da giocare per un sistema politico impazzito, non può non indurre chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia italiana a fare – più o meno sobriamente – il tifo per lui. Ciò non toglie che farebbe bene ad aspettare ancora qualche momento prima di sedersi, verificando sempre con attenzione la presenza della sedia.