Il segretario del Pd Nicola Zingaretti a "Mezz'ora in più" nel 2019, davanti a una foto dell'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte (LaPresse)

il foglio del weekend

Le ceneri di Bombacci

Francesco Cundari

Altro che Gramsci e Togliatti. Il vero modello della sinistra populista è l’uomo che voleva costruire il socialismo con Mussolini

Ora che la linea del nuovo centrosinistra fondato sull’alleanza strategica con il Movimento 5 stelle e la leadership di Giuseppe Conte (con l’Avvocato del Popolo nei panni di “nuovo Prodi”) può essere finalmente consegnata agli storici, è venuto forse il momento di fare un po’ di storia. Sulle ragioni di una tale scelta periodizzante, per dir così, non dovrebbe esserci bisogno di molte spiegazioni, dopo la relazione di Nicola Zingaretti alla direzione del Partito democratico di giovedì e la lettera di Goffredo Bettini pubblicata lo stesso giorno sul Riformista.

 

Per brevità, mi limiterò a citare il passaggio saliente di quest’ultima: “Nel corso del governo Conte 2 non ho mai parlato di una alleanza strutturale e strategica con il Movimento 5 stelle. Anzi, non ho mai capito bene cosa questi termini volessero significare”. E se non l’ha capito lui, verrebbe quasi da dire, non si vede perché scervellarci noi. Ma sarebbe un errore. Anche i renziani più irriducibili, i calendiani della prima ora, i nostalgici della terza via blairiana devono riconoscere, infatti, con tutto il male che legittimamente possono pensare delle scelte di Zingaretti e Bettini, che la linea dell’alleanza strategica con i grillini una qualche presa l’ha avuta, e a una parte consistente della sinistra, dei suoi intellettuali e anche dei suoi elettori non è apparsa affatto come una scelta contro natura.

 

 

Dunque la domanda da porsi, semmai, è cosa c’è che non va nella natura della sinistra italiana, o perlomeno che non quadra con il racconto prevalente in tante delle ricostruzioni che oggi riempiono le librerie. Mentre noi ce ne stiamo qui a parlare, infatti, prosegue l’instancabile produzione analitica e memorialistica sul Partito comunista italiano, in occasione del centenario: di questo passo, entro la fine del 2021, i libri pubblicati sull’argomento saranno almeno cento, uno per anno, avvicinando il traguardo dei cartografi di quel celebre frammento di Borges, con la loro mappa in scala uno a uno, che ricopriva interamente il regno come un lenzuolo. Allo stesso modo, in libreria, oggi è possibile rivivere l’epopea del Pci praticamente giorno per giorno, da ogni possibile punto di vista.

 

Da quello, diciamo così, del design, secondo il “racconto per immagini” di Fabrizio Rondolino (“Il nostro Pci”, Rizzoli), con la sfilata di tessere, manifesti, gadget e chincaglieria varia prodotta dai comunisti italiani nel corso degli anni, a quello del disegnatore, secondo il racconto autobiografico di Sergio Staino (“Storia sentimentale del Pci”, Piemme). Tra le ricostruzioni più recenti e interessanti, per l’attenzione ai riflessi sui problemi profondi della storia d’Italia e per la distanza da luoghi comuni consolidati, agiografie e alibi tipici di una certa storiografia, c’è senza dubbio il dialogo tra Emanuele Macaluso (scomparso poco prima di poterlo vedere pubblicato) e Claudio Petruccioli: “Comunisti a modo nostro” (Marsilio). Titolo che sembra giocare su una doppia originalità: quella del Pci rispetto agli altri partiti comunisti del mondo e quella dei due autori rispetto al resto dei comunisti italiani.

 

 

Se fosse intenzionale, andrebbe rilevata però una lieve contraddizione, perché delle due l’una: o il Pci era la meraviglia che molti sostengono, e perciò non può essere confuso con il resto del movimento comunista mondiale cui pure apparteneva, per l’autonomia che si era conquistato e per la libertà e la qualità del suo dibattito interno, o erano particolarmente originali i pochi dirigenti che a un certo conformismo, anche nell’interpretazione e nella difesa della sua storia, si sottraevano. Perché alla fine il sospetto – che però non riguarda i due autori appena citati, cui non è mai mancata l’onestà intellettuale – è che gli eredi del Pci tendano a interpretare la storia del partito (e di conseguenza la loro storia personale) ciascuno un po’ a modo proprio. Se c’è però un punto su cui la maggior parte degli autori che si sono dedicati al tema in questo periodo sembrano concordare – compresi Macaluso e Petruccioli – sta nel riconoscere a Palmiro Togliatti, e in particolare al suo operato negli anni gloriosi che vanno dalla svolta di Salerno alla promulgazione della Costituzione, il merito di avere cambiato per sempre la natura del partito, indirizzandolo sulla strada di un’evoluzione democratica irreversibile, conseguente e mai tradita (almeno in patria, che capisco possa apparire una limitazione non da poco per una parentesi, ma anche lo spazio di un articolo è quello che è: abbiate pazienza).

 

Dopo molti decenni di demonizzazione della figura di Togliatti e della sua eredità, personalmente, la considero una novità molto positiva (ma ne ho già parlato su queste pagine e dunque non ci torno). Per il lettore di oggi si pone tuttavia un problema, perché non è affatto facile conciliare il racconto fin troppo lineare dell’evoluzione del Pci dall’antiparlamentarismo bordighiano al costituzionalismo democratico – evoluzione considerata da tutti (o quasi) come la radice sempre vitale della sinistra italiana – con il dibattito e le vicende che abbiamo sotto gli occhi. E dunque con la subalternità al grillismo, l’infatuazione per Conte e l’incredibile indulgenza manifestata nei confronti dei provvedimenti più illiberali del governo gialloverde in tema di sicurezza e immigrazione, giustizia e diritti civili. Per non parlare dello sfregio alla Costituzione fatto in nome del “taglio alla casta” o delle peggiori pulsioni distopico-totalitarie del partito proprietario inventato dalla Casaleggio Associati, sia pure temperate da abbondandanti dosi di imperizia, come sul vincolo di mandato e sulla pretesa di governare un intero gruppo parlamentare dalla piattaforma Rousseau.

 

E quando parlo di infatuazione e indulgenza, sia chiaro, non mi riferisco solo ai dirigenti del Pd provenienti dalla tradizione post comunista, ma anche a un vasto circuito intellettuale e ad ampie fasce dell’opinione pubblica progressista. Qui sta la contraddizione decisiva che anche i lettori più benevoli di tante discettazioni sul Pci, sulla sua originalità, sulla sua evoluzione, sul modo in cui Togliatti mette a frutto le riflessioni contenute nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (con tutto il seguito del ritornello, che vi risparmio), non possono non vedere. In parte, probabilmente, è qualcosa che precede la stessa affermazione di Gramsci e Togliatti, e rimonta all’estremismo del primo leader del Partito comunista d’Italia, Amadeo Bordiga. Figura che sarebbe peraltro ingiusto rinchiudere nel cliché del rivoluzionario dogmatico e settario, quale pure certamente fu, secondo la damnatio memoriae cui sarà condannato dalla storiografia ufficiale del suo partito (cioè, anzitutto, da Gramsci e Togliatti, che avevano tante qualità ma nella lotta politica non erano proprio due teneroni).

 

E se di sicuro nel suo violento antiparlamentarismo, nel suo assoluto disprezzo per i vuoti riti della democrazia, per i diritti e le garanzie dello stato borghese, c’è un lascito che in qualche modo è arrivato fino a noi, passando per le diverse stagioni dell’estremismo politico italiano, ogni paragone con i dirigenti della sinistra di oggi – oltre che anacronistico – sarebbe profondamente ingiusto, e inescusabile, nei loro confronti. Ma un po’ anche nei suoi: non foss’altro perché lui era uno che aveva il coraggio di gridare la verità in faccia a Giuseppe Stalin, questi balbettano davanti a Beppe Grillo. L’amara verità è che il fortissimo punto di riferimento storico della sinistra filo-populista di oggi – in realtà più di certi intellettuali che dei dirigenti politici – non è né Gramsci né Togliatti, ma Nicola Bombacci. Il leader massimalista che fu tra i fondatori del partito comunista nel 1921, finito vent’anni dopo con Benito Mussolini nella Repubblica sociale italiana, in nome del vero programma marxista e della rivoluzione socialista, che immaginava di attuare nel regime fantoccio voluto da Hitler.

 

Analoga alla sua mi pare l’incapacità mostrata da tanti di cogliere il nesso tra scelte di politica nazionale e internazionale (e pensare che era la specialità della casa, un tempo, almeno sul piano dell’analisi: la pratica, certo, era un altro discorso), ma soprattutto di porre in una ragionevole scala di priorità la decisione su dove mettere l’ultima aliquota irpef e la difesa dei fondamentali diritti della persona, il diritto alla pensione anticipata e quello a un giusto processo, cuneo fiscale e habeas corpus. Una forma di strabismo morale, prima ancora che politico. Ma soprattutto una straordinaria regressione politico-culturale, rispetto a quel percorso, fin troppo solennemente celebrato, cominciato con la famosa svolta di Salerno. E che cos’era all’osso quella svolta, vista dall’interno di un partito composto fino ad allora esclusivamente di “rivoluzionari di professione”, se non la ridefinizione radicale della scala di priorità: prima la liberazione, la ricostruzione della democrazia e la messa in sicurezza dei diritti fondamentali del cittadino nella Costituzione, poi le lotte politiche e sociali, che saranno durissime, con centinaia di morti sul terreno, ma che non intaccheranno mai tale cornice (contrariamente a quello che credevano e chiedevano in tanti anche nel Pci, e che furono sempre e sistematicamente delusi).

 

Il punto fondamentale mi pare stia qui: che negli ultimi anni questa lezione – mi verrebbe da dire questa grandiosa opera civilizzatrice della politica e in particolare della sinistra rivoluzionaria italiana – è stata dimenticata, o sopraffatta dal ritorno in campo, cambiando quel che c’è da cambiare, di altre correnti che quella lezione e quegli insegnanti hanno sempre contestato. Solo così, a mio parere, si spiega il maggiore paradosso della sinistra filo-grillina, e cioè il fatto che per molti, evidentemente, i decreti sicurezza e persino gli emendamenti per multare e sequestrare le navi alle ong che salvano persone in mare è un peccato veniale, mentre il “patto del Nazareno” (qualunque cosa s’intenda con l’espressione) è un peccato mortale. In parte è il problema antico della prevalenza del piano simbolico e propagandistico sui fatti, sugli effetti reali, sul merito dei concreti provvedimenti.

 

Altrimenti non si capisce come possa una persona di sinistra, in coscienza, ritenere preferibile battersi insieme con Matteo Salvini contro chi soccorre i migranti in mare piuttosto che salvarli governando con Angelino Alfano. Eppure di fatto è così, e se ne hanno continue dimostrazioni, a cominciare dall’indulgenza con cui ai grillini – in nome della lotta contro “la casta” – è stato abbonato tutto, dalla diffusione dei protocolli dei Savi di Sion sui social network alle campagne giornalistiche e giudiziarie che accusavano le ong di favorire l’immigrazione clandestina per chissà quali oscuri interessi, ai deliri antisemiti su presunti piani di sostituzione etnica architettati da George Soros, con tutta la relativa paccottiglia paranazista diffusa per mille canali, online e non solo. Per me, in sostanza, la regressione populista di oggi è figlia di un venir meno della cultura politica gramsciano-togliattiana. Per una lettura diversa, può dunque essere utile vedere cosa scrivono, in occasione del centenario del Pci, coloro che contro l’egemonia del canone gramsciano-togliattiano si sono sempre battuti, conservando naturalmente la loro quota di cicatrici, pregiudizi e risentimenti.

 

A questo proposito, sull’ultimo numero di Mondoperaio, merita senz’altro una segnalazione il provocatorio articolo di Ugo Intini, intitolato non per niente “Bombacci, chi era costui?”. Analisi piuttosto liquidatoria su Togliatti e sul Pci, secondo cui fascisti e comunisti sarebbero due scissioni sostanzialmente analoghe del Partito socialista, entrambe fondate sul rifiuto del riformismo e sull’esaltazione della violenza, che si sono potute fraternamente riabbracciare ai tempi del patto Ribbentrop-Molotov e che solo le successive vicende della guerra hanno separato (riassumo e manipolo un po’, togliattianamente, per esigenze di spazio, rinviando alla rivista, che contiene molti altri interessanti contributi). Ma anche chi come me non condivida un simile punto di partenza dovrebbe riconoscere un grano di verità nella sua ricostruzione della genealogia del bombaccismo italiano, in particolare nei tanti intellettuali transitati agevolmente – e non solo per opportunismo, ma appunto in forza di quella contiguità – dal fascismo negli anni del regime al comunismo nel Dopoguerra.

 

E anche, anzi soprattutto, nel seguito della storia, con il chiudersi della parabola dal dipietrismo al grillismo (e ritorno, vista l’ultima resurrezione parlamentare dell’Italia dei valori, come simbolo dei fuoriusciti del Movimento 5 stelle). Forse, paradossalmente, il principale difetto di tanti libri sul Pci è che si fermano troppo presto. E non spiegano dunque come, partendo dai Quaderni di Gramsci, si possa arrivare al blog di Grillo.