la lettera
"Il Pd di Enrico Letta si dovrà liberare da ipoteche e sudditanze", ci scrive Pittella
"C'è chi crede che si debba ricreare un polo di sinistra con Leu e grillini fuori dal partito. Bisogna invece credere nel Pd e nel governo Draghi, che è il nostro governo. Il rapporto col M5s non sia esclusivo: meglio Ursula". Le tesi del senatore dem
La responsabilità di un partito politico è aggiustare la rotta mentre è in navigazione e le dimissioni di Nicola Zingaretti offrono con generosità questa occasione da non sprecare. La realtà da correggere è quella di un partito in caduta di consensi perché inadeguato a mantenere la promessa su cui è nato, unire i grandi riformismi all’insegna della cultura e della pratica liberalsocialista di cambiamento del Paese e farlo avendo l’ambizione di rappresentare tutto o almeno gran parte del campo progressista. Questa crisi indiscutibile cui far fronte ha un possibile doppio sbocco, a seconda della lente con cui la si guarda e la si trasfigura.
Da una parte c’è chi pensa che nel PD siamo di fronte a un amalgama mal riuscito e che sia il tempo di aprire un cantiere della sinistra tout court con Leu e con il Movimento 5Stelle, in forma tendenzialmente federativa o addirittura di progressiva liquidazione in una forza unitaria. Questo processo sarebbe favorito, per i sostenitori di questa suggestione, da una guida come quella di Conte, tendenzialmente spodestato da una congiura a cui abbiamo aderito obtorto collo, in nome della nostra solita responsabilità nazionale, e che invece può rappresentare per l’oggi e il domani una guida amata dal Paese e di sicura fede progressista. La conseguenza teorica di questa rappresentazione è una sostanziale inutilità del Pd così com’è, e la sua lateralità al governo Draghi, di cui subiamo o poco meno le scelte, i profili, gli orizzonti. La conseguenza pratica è un Pd al 14 per cento destinato a contare ancor meno perché subalterno culturalmente, anzi destinato alla sua eutanasia, più o meno dichiarata verso (forse) nuove sorti e progressive.
La mia tesi che in questi ultimi mesi ho provato a condividere nella pubblicistica è di segno opposto. Su tre punti qualificanti e logicamente collegati. Primo. Considero il Partito Democratico la più importante invenzione politica degli ultimi decenni. Con tutti i suoi limiti e rivolgimenti è l’unica forza capace di dare cittadinanza ai riformismi di segno progressista, cioè agli uomini e alle donne che credono nelle istituzioni democratiche a cominciare dalla funzione dei partiti, che credono nell’economia di mercato e al contempo nella funzione correttiva dello Stato, arbitro sempre degli interessi collettivi e giocatore nei settori del monopolio naturale, dei servizi essenziali o di strategicità rispetto agli interessi nazionali, che credono nella progressività redistributiva dell’esazione fiscale, nella coesione territoriale del Paese, nella promozione dei diritti di civiltà e di cittadinanza, nella sostenibilità ambientale e che, infine, crede nell'Europa come una comunità di destino, uno strumento di unità e pace, di integrazione politica ed economica e lo strumento necessario per contare nel mondo.
Secondo. Considero il PD non esaustivo in sé ma il perno fondamentale, il motore di una coalizione ampia, un nuovo semplificato Ulivo, aperto alle forze europeiste che non posseggono i caratteri retrivi del conservatorismo o del populismo, secondo il modello già sperimentato in Europa per l’elezione di Ursula Van der Leyen, da 5Stelle a Forza Italia. Ritengo in questo quadro il Movimento fondamentale ma non l’alleato privilegiato. Troppo ci separa, dalla dubbia qualità dei suoi processi democratici interni, sui temi delle garanzie e del giusto processo, sulle resistenze stataliste all'intrapresa economica, sulle politiche del lavoro e la valorizzazione del merito, sulle infrastrutture critiche e più in generale sulla sfida dello sviluppo che deve essere sostenibile certo ma anche sostenuto, perché ogni politica redistributiva può esistere solo se c'è cosa redistribuire.
Terzo. Considero il governo Draghi come il nostro governo, come una storica opportunità per l’Italia per superare i suoi limiti storici, perché meriti e bisogni sia il crinale di ogni scelta di indirizzo politico. Attorno a questi temi, non su plebisciti che nell’unanimisimo non sciolgono i nodi politici, che si para la candidatura di Enrico Letta. Non debbo spiegare a nessuno chi è Enrico Letta e quanto il suo nome io consideri con antica stima e consonanza, tanto che fui coordinatore della sua campagna per le primarie a segretario quando si opponeva al colosso Veltroni. Il suo ritorno in Italia alla guida del PD può essere una grande occasione rifondativa, se non metterà il silenziatore al confronto, alla discussione sulle visioni, sui caratteri, sulle strategie, lasciando in soffitta invece le beghe tattiche e di mero posizionamento.
Perché ciò accada bisogna liberare Letta da ogni ipoteca precostituita e su questo umilmente intendo lavorare. Abbiamo avuto in questi anni direzioni sempre unanimi, sindaci e presidenti di regione ai margini delle scelte, conflitti basati più su etichette di ex che su linee di indirizzi politico. A cosa è servito? A costruire sudditanze, dentro e fuori il Pd. La sfida di Letta, se sarà eletto in Assemblea, sarà tutta qui. Affrancare se stesso all’interno, per affrancare il Pd all’esterno, nell’agone politico e ridargli i tratti che ne hanno caratterizzato la nascita, ormai quasi quindici anni fa.
* senatore del Pd