Il valore della parola
L'arte di aspettare
Niente Whatsapp e nemmeno Telegram. Studiare la leadership di Letta attraverso il suo telefonino
Dice Enrico Letta che crede alla forza e al valore della parola. Lo dice per dire che c’è, si candida alla guida del partito, vuole essere votato sulla base delle sue parole, non gli interessa l’unanimità bensì “la verità nei rapporti tra di noi”. E allora noi spostiamo la bottiglia, anzi le bottiglie (molte, moltissime), e ci mettiamo guardare se di tante poche parole ci si può fidare. Lo spreco verbale non usa più, è tempo di gran signori, persone silenziose, ceto operativo.
Draghi non ha WhatsApp, Letta lo usa pochissimo, solamente su un numero. Su WhatsApp dopotutto si comunica per gif, meme, sticker, adesivi, e si sta in gruppi, mai in fila. Letta non ha Telegram. Usa il telefono per telefonare, come nel Novecento, all’opposto di Renzi, che invece lo usa per scrivere, fotografare, twittare, contare i passi, naturalmente chattare su WhatsApp, ma mai per telefonare, tranne che a Luca Bizzarri per dirgli: ho visto lo sketch che hai fatto a Sanremo sui toscani che vanno in tv a dire cazzate, molto divertente. Zingaretti si risentì parecchio, quando ci fu la scissione, disse che ne era stato informato su WhatsApp, che non gli era stata fatta “neppure una telefonata”, e non s’è mai saputo chi fosse il mittente del WhatsApp, se Renzi o qualcuno che gli avesse mostrato il tweet di Renzi, l’epico “Zingaretti è un amico, me ne vado con allegria”. Quale allegria, cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino.
Letta telefona perché dialoga, discute, dice. Non manda messaggini. Parla. In questi giorni ha parlato a lungo con Zingaretti, Franceschini e Gentiloni, “forse il compagno di partito con il quale Letta ha parlato più a lungo al telefono”, ha scritto Stefano Cappellini su Rep. Evitando WhatsApp, peraltro, Letta riesce a fare una cosa alla quale WhatsApp diseduca e disabitua: aspettare. Prima di decidere di caricarsi questo Pd sulle spalle e provare a salvarlo, si è preso 48 ore. Quarantotto. Prima di diffondere il video in cui ha spiegato la sua decisione, si è fatto un selfie, cosa per lui piuttosto rara, al Ghetto ebraico di Roma, e ha scritto di ricordare le parole di Liliana Segre: “Non siate indifferenti”. Odiamo gli indifferenti. Matteo Renzi non ha twittato niente. E nemmeno Zingaretti. Twittano di meno tutti, a parte Salvini e Calenda, comunque più morigerati che mai. Giorgetti, Cartabia, Lamorgese, Garofali, Giovannini resistono fuori dai social, incrollabili come Mina, e dire che solo un paio di anni fa la condicio sine qua non per esistere era stare sui social e starci bene, produrre contenuti.
Adesso è il contrario: non starci è garanzia di serietà, bollino blu di affidabilità e autenticità – a proposito di bollino blu, Letta ne ha uno su Twitter ma non su Instagram, ed è certamente un caso, ma come ogni caso è parecchio loquace: il leader che parla dell’importanza delle parole, soltanto sul social delle parole, e non su quello delle immagini, vidima e certifica la sua identità. Il 5 stelle ha i suoi problemi e Grillo ha detto chiaramente che dovrà cambiare strategia e parole, che poi sono la stessa cosa, e a occuparsi di tutto ci sarà Nina Monti, figlia di Maurizio, il paroliere di Patty Pravo.
È l’effetto Draghi, ma pure la pandemic fatigue. È la serietà che speravamo, proprio un anno fa, che tutti, politici amministratori influencer avventori, si sentissero in dovere di adottare e che eravamo certi che avrebbero adottato, con quegli scuri di luna. Un anno fa dicevamo: questo virus ci renderà migliori, questa batosta taciterà gli scomposti, gli urlanti, i no vax. E invece non è successo. Forse succederà adesso, per opera di alcuni uomini educati, non indifferenti, timidi molto audaci.