L'inaspettato ritorno di Letta, vero uomopolitico
L'ex premier torna nell'agone politico dopo aver accresciuto la propria credibilità, dimostrando che esiste un'alternativa allo sbaraglio e alle lobby: il buonsenso e la visione d'insieme
Nell’elenco delle professioni usuranti dovrebbe rientrare a pieno titolo quella di segretario del Partito Democratico. Degli otto che si sono alternati dall’ottobre 2007, cinque hanno cambiato partito o addirittura lavoro. La storia di Enrico Letta, al contrario, è quella di un grande e inaspettato ritorno: talento della politica, giovane Ministro, Eurodeputato, fondatore del think tank VeDrò negli anni in cui pochi sapevano cosa fosse un think tank, fondatore del Partito Democratico e poi, esattamente per trecento giorni, Presidente del Consiglio dei Ministri. Una traiettoria politica lineare, una progressione senza soluzione di continuità fino al 14 febbraio 2014 quando, come in un romanzo rosa scritto male, proprio nel giorno di San Valentino, si interrompe una grande storia d’amore. E quando succede, si sa, restare amici è difficile.
Così arriva, finalmente, la discontinuità e con essa l’occasione per guardare le cose da un’angolazione diversa. Enrico Letta parte per Parigi, si mette a insegnare all’università di SciencesPo e, in quel 2015, succedono due cose molto utili per definire il suo profilo. La prima: per svolgere serenamente il suo nuovo mestiere si dimette da Deputato dicendo: “lascio il Parlamento, ma non la politica, perché dalla politica non ci si dimette” (tradotto per i populisti: rinuncio allo stipendio, ai bonus, ai vitalizi, ma non al libero esercizio del mio pensiero e al tentativo di prendermi cura della polis, il mio pezzo di mondo). La seconda: fonda una Scuola di Politiche, guai a chiamarla al singolare, ispirata al suo maestro Beniamino Andreatta. E qui le cose si fanno interessanti, perché mette insieme, ogni anno, tanti under 26 di talento, che selezionati e senza costi di iscrizione, vengono bombardati da stimoli, competenze, confronti, esperienze, testimonianze e imparano a considerare la politica una cosa bella. In sintesi: prima le dimissioni, gesto fortemente inusuale al giorno d’oggi, poi studio, docenze e formazione gratuita a giovani che vogliono prepararsi ad assumersi responsabilità.
Ecco l’Enrico Letta degli ultimi cinque anni: uomopolitico, scritto proprio così tutto attaccato, del quale la prima cosa che mi viene in mente è l’onestà. Nel senso tradizionale (affiderei a lui l’amministrazione del mio conto corrente, condominio, città, regione e Paese), ma anche nel senso intellettuale di chi, fin dai tempi di VeDrò, crede nella forza del pensiero laterale e della contaminazione. È l’unico modo per far lavorare insieme i due emisferi cerebrali: quello sinistro, della logica, razionalità e matematica, e quello destro che alimenta passioni, filosofia e poesia. D’altronde Enrico è biologicamente figlio di Giorgio, illustre accademico matematico, e politicamente figlio di Beniamino Andreatta, uomo di studi classici e di continua ricerca culturale. Matematica e poesia rappresentano il vaccino al populismo, che sano non è mai, e non va inseguito, ma superato, colmando quel vuoto che ne ha generato l’avvento. D’altronde populismo e poltronismo sono sintomi della stessa patologia ed è mai possibile che fra apprendisti allo sbaraglio e lobby non esista un’alternativa? Sì, esiste: il buonsenso e la visione d’insieme. Come si farebbe in una squadra, dove fisiologicamente ci sono sempre sia i sabotatori che gli alleati, ma il problema è solo qualitativo, mai quantitativo. Una manciata di persone fortemente motivate possono stravolgere la vita di una squadra, di un’organizzazione, di un partito o di un Paese. Scegliete l’esempio che preferite: sedici erano i rivoluzionari sopravvissuti a Cuba dopo lo sbarco del Granma, dodici gli Apostoli in Palestina. Entrambi hanno avuto un certo successo.
Facile dunque? Tutt’altro. E Letta è il primo a saperlo. Con il mare piatto, d’altronde, siamo tutti marinai e, finita la partita, tutti allenatori! Chissà se babbo Giorgio, che nella sua carriera di matematico si è occupato di calcolo delle probabilità e statistica, saprebbe stimare le chances di successo di questa missione complicatissima.
Enrico Letta dovrà sbarazzarsi di un po’ di post-veggenti (coloro che, dopo, ti dicono cosa era giusto fare) e non ri-costruire, ma costruire una nuova identità, perché quella precedente si è sbriciolata. Serviranno arte e scienza per far tornare il PD ad essere un punto di riferimento progressista, riformista, europeista. E anche ecologista, andando a presidiare un tema che ha cambiato la forma dell’azione politica di mezza Europa del nord e che invece, alle nostre latitudini, resta incredibilmente sottovalutato. Insomma, un Partito che dovrà ritrovare la voglia di scendere in strada (oggi metaforicamente, ma appena sarà possibile muovendo il fondoschiena). Non rincorrere, ma muovere per primo. Non farsi dettare l’agenda, ma scriverla. Non implorare alleanze, ma farsi scegliere. Non macerarsi in lotte intestine consumando così le energie, ma attrarre intelligenze, talenti, giovani che sono energia.
I momenti di discontinuità sono sempre straordinariamente generativi. “O vinco, o imparo” si dice nel mondo dello sport e Ho imparato è il titolo dell’ultimo libro di Enrico Letta che si rimette in gioco in questa partita enorme. Sarebbe stato complicato già di suo, lo è ancor di più di fronte a una stanchezza e una rabbia crescenti che i populismi sanno strumentalmente come incendiare, contribuendo al disastro. Quella discontinuità, quei sei anni passati a guardare le cose da un’angolazione diversa, sono oggi lo strumento più affilato in mano ad Enrico Letta, chiamato alla guida di un nuovo Pd che deve guardare al popolo, certo, ma non ai populisti. E prima di tutto a quel suo popolo che si è trovato a vagabondare intellettualmente, senza più una casa che, un tempo, era sembrata bellissima, ma dove ora il tetto è crollato e piove dentro, da tempo. E non solo acqua.
Quel tetto, serve rifarlo da capo, non si può rattoppare. E bisogna farlo proprio oggi, in piena tempesta, come quando nel 1941 Altiero Spinelli sull’Isola di Ventotene scriveva il Manifesto per un’Europa libera e unita mentre tutt’intorno c’erano ancora i campi di concentramento, il nazismo e il fascismo.
Il miglior suggerimento? Quello che un vecchio pazzo regala, in una scena del film, al dottor Patch Adams: “Se ti concentri sul problema, non vedrai la soluzione”.
Ha imparato Letta nel suo periodo parigino e anche noi, almeno si spera, in quest’ultimo anno. Abbiamo imparato che aver abbassato l’asticella per così tanto tempo ha generato un debito di cui stiamo drammaticamente pagando il prezzo e che, quando le cose sono difficili, la differenza la fanno la statura morale, la vicinanza (l’esatto contrario del populismo), la competenza e il sapersi circondare di giovani di talento, curiosi, capaci di sviluppare e connettere, per le linee orizzontali, le forme del sapere. Soprattutto abbiamo imparato che nessuno si salva da solo.
Rileggete, se vi va, le prime righe di questo articolo e ritroverete tutte queste caratteristiche nell’uomo cui è affidata questa missione (im)possibile e che si presenta al nastro di partenza con un solo vantaggio: sapere che l’uomo solo al comando non è mai la soluzione.
Buon lavoro, davvero.