Di Draghi non giudico l'apparenza, ma l'azione
Il suo dire e non dire, nell’attesa prudente degli effetti del suo agire
Il silenzio di Mario Draghi non sarà interrotto da domande e risposte nel corso di una conferenza stampa. La cerimonia della comunicazione politica professionale, invece, lo confermerà. Il silenzio di Draghi comincia ora che ha parlato. Non lo dico per una pericolosa tendenza eccentrica, e perfino clownesca, che da sempre mi accompagna nel carattere, ma per intima convinzione. Draghi non è un uomo di mondo, come tutti i politici in parte sono, con le loro metafore popolari, le mucche nel corridoio, o i loro luoghi comuni di un gergo comune che tutti devono poter afferrare a prima vista; l’uomo di mondo deve apparire prima ancora di essere, anzi, il suo essere è in larghissima misura il suo apparire
Il problema di un politico anomalo come Draghi, funzionario, tecnico, eppure politico, è invece impostato in un sapido capitolo di un saggio di Marc Fumaroli, dedicato all’Oracolo manuale di Baltasar Gracián, il celebre testo del Seicento, Siglo de Oro, in cui si consiglia l’uomo privato e pubblico a districarsi in ciò che è o potrebbe essere (e non essere). Il capitolo si intitola. “Dentro e fuori. L’arte di costruirsi una fortezza interiore, di rendere il suo accesso attraente, pur preservando il suo segreto”. Questo è il vero tema della conferenza stampa del capo del governo, che si può giudicare, anche in breve, sommariamente, prima di averla ascoltata, ciò che faccio ora. Fumaroli (il saggio è nelle edizioni Adelphi) direbbe che Draghi finora “si è riservato la parte di silenzio e di segreto che tiene gli altri in sospeso e serba degli effetti di appetito, di curiosità e di sorpresa”. Si è intrattenuto nel suo “retrobottega”, come lo chiamava Montaigne.
Ora ne esce per un istante anche lungo e discorsivo, ma “questo implica, nell’ordine della parola, di non dire tutto ciò che pensa, di dare per scontato che non tutta la verità va detta, di tenere per sé le proprie intenzioni profonde pur indagando in quelle altrui…”. Perché “l’essere vale in sé, l’apparire solo per la valutazione che ne fanno gli altri. L’essere vale molto e appare poco, immobile, silenzioso, invisibile. L’apparire non vale niente, ma conta molto fra gli uomini. […] La visibilità è comune all’attore e al commediante, in un mondo dove restare invisibile è essere inesistente”.
Ecco. Nella conferenza stampa, la prima, come nei successivi atti di comunicazione, si rifletterà questa vertiginosa e forse ermetica dialettica della persona, della maschera e del potere. Sopra tutto del potere. Abbiamo tutti riflettuto sul fatto che bastarono tre parole fulminanti, in lingua istituzionale precisa e laconica, per dire l’essenziale dalla torre della Banca centrale europea di Francoforte nel pieno della grande crisi: “Whatever it takes”. L’euro fu salvato perché Draghi, secondo il mandato degli stati in difesa dai mercati, aveva l’autorità e il potere di battere moneta, che è poi l’essenza di ogni potere da sempre. L’uomo svolse puntualmente la sua parte. Ma quale sia ora la parte del capo di un governo parlamentare in Italia, questo è un altro affare. Considerando i suoi poteri, la loro frammentazione, il loro essere e apparire sottoposti alla volubilità dell’opinione, all’apparire che solo conta, Draghi dovrà ricorrere a una dissimulazione onesta. Dovrà dire e non dire, quale che sia la chiarezza dell’eloquio, e attendere prudente gli effetti eventuali dell’agire. In questo senso una conferenza stampa non interrompe un silenzio. E può essere per così dire ascoltata e giudicata prima che si sia svolta.