Le idee gloriose ridotte a tonterias
Draghi o no, la riformulazione delle categorie liberali è un fatto
Che i libbberali o quel che ne resta perdano quello stigma della tripla bi, a intendere enfiagione retorica e ideologismo posticcio, è interesse di tutti. Lo abbiamo visto in recenti occasioni più o meno serie o goliardiche. A convegno, paiono giocherelloni che non sanno che fare a parte perdere e ritrovarsi happy few all’apericena. Inutile fare finta di non accorgersene. Nel campo delle idee modernizzatrici, globalizzatrici, riformiste e liberali si è sedimentata una specie di penuria di realismo fatta più amara dall’avanzare dello stato, di corporazioni e poteri intermediari un po’ in tutti i settori della vita civile, specie in accompagno alla pandemia che cambia e ristruttura anche i rapporti sociali ma non solo.
Quando sento parlare di Ken Loach, di Noam Chomsky o di Thomas Piketty metto mano alla pistola e invoco un governo mondiale delle multinazionali. Le mie amate guerre culturali le ho dichiarate perdute non appena si è passati da una comprensione individualista e di società aperta dei grandi problemi del millennio, aborto famiglia genere e ingegneria genetica, alla predicazione polverosa dei pope e di altri curatori fallimentari della conventicola destrorsa e reazionaria. Però questo è: la fiducia nei mercati, nell’intraprendenza da start up nation, nel gioco libero delle libertà e responsabilità, è oggi legittimamente subordinata alla presenza sempre meno ingombrante, sempre più necessaria, dello stato. Quel che non hanno potuto le infide e talvolta losche campagne contro il mercatismo, che miravano al cuore della rivoluzione commerciale, finanziaria e tecnologica del nuovo secolo, ha potuto la realtà non solo virale di un’idea del capitalismo come qualcosa da riformare e tenere a bada. Chi voleva speculare per basse ragioni parapolitiche contro i criteri rivoluzionari imposti alla fine del Novecento dalle grandi avventure della Thatcher e di Reagan ha perduto la battaglia contro il cosiddetto liberismo sfrenato, ma la riformulazione di fatto e di principio delle principali categorie liberali è un fatto. Ignorarlo vuol dire farsi del male e rinunciare a capire, vuol dire abbracciare un’ideologia banalmente stylish, cercare la moda nel vintage.
C’è poi una complicazione italiana notevole. Matteo Renzi aveva sequestrato di forza e di consenso l’area riformista e l’aveva rilanciata con talento e grande ambizione, fino al combinato disposto di riforma costituzionale e riforma elettorale. Quel progetto si è arenato. Non è una questione di colpe, e nemmeno di intrinseca fragilità del potere italiano, anche quando è messo al servizio di una modernizzazione politica; basta osservare la parabola di Emmanuel Macron, che aveva ripreso e rilanciato quell’impostazione in un paese fieramente restio a ogni forma di liberalismo non egualitario; ebbene, sì, va detto, Macron può vivere politicamente e sopravvivere, può anche rivincere, ma i colpi che ha subìto anche il suo riformismo dall’alto si vedono tutti, sono misurabili e spiegabili. Intorno al liberalismo riformista, poi, in Italia è fiorita e rifiorita e tremendamente sfiorita tutta una coterie ideologistica e pulviscolare che, passato l’archetipo Pannella, rifluito il tentativo montiano di depoliticizzare la democrazia, si è incarnata in un personale di risulta, in organizzazioni francamente ridicole, in una specie di costellazione di partiti segnaposto di cui il liberalismo non è responsabile ma di cui deve sopportare le conseguenze.
Ora la chiamano, con la solita esagerazione autolesionista, “area Draghi”, significando di non aver capito proprio l’essenziale: Draghi è una cultura e una pratica di mercato, finanziaria, trasformativa e riformista che si istituzionalizza, e vince oggi le sue battaglie solo dentro le istituzioni centrali, e l’ultima battaglia è un esperimento politico nazionale, di grande valore e di assoluta emergenza, che non ha molto a che vedere con gli orpelli di chi cerca convulsamente e fresconamente un nuovo fronte liberale da aprire. Chiedere proprio a Draghi, e al suo contesto di prudente agibilità politica e disciplinamento di un paese riottoso, di rinverdire e rianimare certe idee gloriose nel frattempo ridotte a tonterias e a luoghi comuni male invecchiati non è rendergli un buon servizio, tra l’altro. C’è bisogno di una difesa e di un consolidamento di pratiche e idee liberali e riformiste, ma ci vogliono tempo e astuzia, non piccolo militantismo.