Morra si vergogna di avere la scorta e la chiama “le mie due tutele”

Salvatore Merlo

La volpe di Machiavelli è diventata l’oca dell’onestà-tà-tà

La “segreteria” del partito la chiamano “direttorio”, il “segretario” diventa “capo politico”, il partito non è un partito ma ovviamente è un “movimento”, mentre il deputato non è “onorevole” bensì “portavoce”.  Una volta Roberto Fico spinse la propria involontaria comicità al punto di dire ad Antonino Monteleone delle Iene che “questa non è un’auto blu”. E intanto però, come nel quadro di Magritte, il presidente della Camera indicava al giornalista perplesso la grossa berlina tedesca con la quale veniva scarrozzato dall’autista: ceci n’est pas une pipe. Allo stesso modo lunedì sera, Nicola Morra, presidente grillino dell’Antimafia, mentre raccontava in un video su Facebook la sua incursione alla Don Rodrigo negli uffici dell’Asl di Cosenza, volendo evitare di pronunciare la parola “scorta” l’ha chiamata “le mie due tutele”. E c’è qualcosa di sintomatico e rivelatore in questa ricerca di sinonimi, in questa acrobatica caccia alla parola alternativa, il sinonimo, che non è certo il rifugio del politicamente corretto ma evidentemente l’eufemismo della vergogna: “tutele” come “pudenda” e “mutande”.

 

Scorta, auto blu e partiti erano d’altra parte il tridente delle cose da abolire, mentre in realtà come tutti i tabù grillini, proprio perché intoccabili, sono finiti pieni di ditate. Anche se restano impronunciabili. Morra infatti si vergogna di essere scortato e dunque chiama i suoi due agenti “le mie tutele”, come stesse parlando della pensione o dell’assistenza sanitaria, allo stesso identico modo in cui Di Maio si vergognava della trasformazione dei grillini in trafficanti del potere e dunque chiamava le ricandidature “mandato zero”. Tipo Coca-Cola o Pepsi. Così lo “statuto” è un “non statuto”, i membri della segreteria sono “team del futuro”, il congresso “stati generali”... Un po’ come quel tale che ai tempi della guerra definiva i proventi della borsa nera “i miei generi alimentari” o quell’altro, più di recente, che si è battezzato “caregiver” utilizzando l’inglese su cui già ironizzava Mario Draghi alla stregua del latinorum manzoniano. Un artificio per coglionare i poveri cristi alla Renzo Tramaglino.

 

E c’è ovviamente qualcosa di antico e tradizionale in tutto ciò, che rimanda alla letteratura dell’imbonimento, alla commedia di Totò, ma anche un po’ – e qui li si nobilita – al riflesso di tutti i fanatici della storia che hanno creduto di poter risolvere le contraddizioni della vita ridisegnando il perimetro del linguaggio. La rivoluzione francese cambiò il calendario. I grillini, più modestamente, hanno creduto di restituire la libertà agli italiani intitolando il loro portale web all’inventore del totalitarismo, cioè a Rousseau. Mentre il presidente dell’Antimafia usa la scorta – pardon: “le due tutele” – come Don Rodrigo usava i bravi. E insomma la volpe di Machiavelli è diventata così l’oca dell’onestà-tà-tà. I fessi si sono rivelati furbi. Come il diavolo a messa, così i Cinque stelle a Palazzo. Con quello che non rinuncia all’appartamento che non gli spetta nella foresteria del ministero. Con la parentopoli sotto il naso di Virginia Raggi. Con la Casaleggio che doveva essere come le Frattocchie dei grillini e invece s’è risolta in una Publitalia capovolta. Dalla doppiezza di Palmiro Togliatti alle “tutele”. Un mondo nuovo si squaderna.

 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.