Enrico Letta, eletto segretario del Pd dopo le dimissioni di Zingaretti (Ansa)

Il Pd giardino di rose

Giuliano Ferrara

Letta può imbarcare i liberali segnaposto. E Renzi può essere un garante. È ora di nuovi schemi 

Insisto, perché sono amico di Renzi ma la verità ha le sue esigenze, purtroppo. Renzi, come tutte le persone assennate, sapeva benissimo che nel caso in cui Mattarella avesse designato Draghi per una missione di unità nazionale, quel “ripartire da Draghi” sarebbe stato un impegno e forse anche un dovere politico obbligante e da festeggiare. Ma quando lavorava per destabilizzare il BisConte, il capo di un partito ultraminoritario del centro riformista e liberale aveva due obiettivi chiari, e Draghi non era tra questi obiettivi dichiarati: il primo era riaffermare e consolidare il suo potere di coalizione su un governo di maggioranza anomala, ridimensionandone o cambiandone la guida politica e emergendo come il vero top manager della situazione, il secondo semmai era portare il paese alle elezioni (ipotesi estrema e difficilmente percorribile) con l’idea di offrire un’alternativa, né con Salvini né con i grillini, che avrebbe probabilmente avuto una portata assai superiore, nella circostanza di una crisi risolutiva che imponeva scelte pressanti da fare agli elettori di centrosinistra, a quel due per cento e rotti oggi attribuito dai sondaggi alla formazione renziana. Poi, visto come sono andate le cose (Mattarella e Draghi) tutti a festeggiare, e Renzi non si è lasciato sfuggire l’occasione delle apparenze, che per un politico è sempre una tentazione (non solo per quel politico affabulatore e un tantino narcisista). Buon per lui, meno per quelli che ci sono cascati con tutte le scarpe, come si dice a Roma anche tra i lettori dell’ineffabile New York Times.

 

Il punto è che adesso gli esiti dovrebbero imporre a Renzi, reduce da un incontro né franco né cordiale con Enrico Letta, una riflessione. C’è ancora uno spazio politico e in prospettiva elettorale per una piattaforma “né con Salvini né con i grillini”? I cambiamenti rispetto al quadro precedente sono due almeno, e di peso. Primo, i grillini contizzandosi tendono obiettivamente a fare partito piuttosto che movimento antipolitico (sede, bilancio, procedure di decisione meno aleatorie e rousseauiane di prima, draghismo di governo per così dire transizionale e verde). Resteranno sempre un’anomalia venuta dal calore incandescente dell’antipolitica, in parte, ma sempre meno. Saranno sempre più un ordinario partner di centrosinistra, niente di strategico e di particolarmente affascinante, per un partito come quello di Letta. Anch’io, per dire, voterei a Roma Calenda senza esitazione, ma un Calenda rigoroso e preparato ad amministrare, uno che non ripeta la litania da applausi a corto raggio, né con Salvini né con i grillini, in modo ossessivo e polemico verso il blocco di cui intende procacciarsi i voti. Se la ripetesse, Calenda, magari con il voto di aficionados, sarebbe condannato alla sconfitta. Un disutile, e un voto disutile.  

 

 

Secondo cambiamento. Ora Renzi via Draghi è al governo e con Salvini e con i grillini. Non c’è spazio per lui in un ruolo di Meloni del centrosinistra. Se è per questo è anche al governo con undici ministri del TrisConte mai nato, e che certo non rimpiange (Draghi oblige) ma un po’ contempla come la passata opportunità di continuare a contare parecchio. In una congiuntura simile, offrirsi come alternativa alla possibile bipolarità futura, Letta-Conte vs Salvini e alleati, conserva un suo charme ma non ha glamour. Non quello necessario a sfondare nello star system di una legge elettorale ibrida di proporzionalismo e maggioritario e in un Parlamento numericamente ridimensionato. Che fare, dunque, visto che con il governo Draghi un’operazione disinvolta di defilamento e siluramento combinati non è possibile umanamente?

 

Qui si presenta in realtà un terzo elemento di cambiamento. Letta nasce dalla crisi del modello Zingaretti-Bettini, esplosa a sorpresa in modi arruffati dopo lunga incubazione. Ma non è espressione della parabola intimamente “contiana” dei due avversari giurati delle manovre renziane. Arriva a prospettare l’alleanza politica con il partito di Conte, se mai nascerà, con il distacco dell’esterno al precedente governo e alla precedente maggioranza. Nella continuità sostanziale, un’apparenza di novità e di svolta mica male. E questo riduce ancora lo spazio del renzismo combattente in nome di valori liberali e riformisti o di quel che di esso sopravvive. Letta ha però interesse, ché ogni campanella ha la sua logica di staffetta, a imbarcare anche i liberali segnaposto nella sua impresa non facile. Di quella coalizione piccola, nella coalizione grande, Renzi può farsi garante o uno dei garanti. Non è il massimo della fantasia e dell’iniziativa, ma nessuno ha mai promesso in politica un giardino di rose.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.