I miracoli del lavoro

Claudio Cerasa

Meno egemonia dei sindacati, più centralità ai salari. La pandemia ha imposto al mondo del lavoro  trasformazioni destinate a portare benefici.  Svolte   per un  rimbalzo. Con qualche spunto di ottimismo  

E se fosse il contrario? E se la storia fosse diversa? E se al posto di una stagione da incubo stesse per cominciare per il mondo del lavoro una stagione speciale? Con i numeri che circolano, con le paure che viaggiano, con l’economia che arranca, con la crescita che zoppica, essere ottimisti sul futuro del mercato del lavoro è un’operazione spericolata che rischia malamente di infrangersi sul muro della realtà.

 

Una realtà fatta di percentuali da brivido (nel 2020, pur con il blocco dei licenziamenti, l’occupazione italiana ha subìto un calo senza precedenti, registrando meno 456 mila occupati rispetto alla media del 2019), fatta di stime da urlo (il governo ha messo in conto che da fine giugno, terminato il periodo dei licenziamenti bloccati, a dicembre potrebbero esserci un milione di potenziali licenziamenti), fatta di numeri allarmanti (sulla base delle stime preliminari diffuse a inizio marzo, nel 2020 risultano essere oltre 2 milioni le famiglie in povertà assoluta, il 7,7 per cento del totale, con un aumento rispetto al 2019 pari a più 335 mila famiglie, anche se in verità la riduzione del reddito lordo disponibile rispetto all’anno precedente è stata del 2,9 per cento, segno che i provvedimenti del governo precedente hanno contribuito di molto ad attenuare in questi mesi l’impatto della pandemia).

 

Se si sceglie di concentrare l’attenzione unicamente su ciò che durante l’ultimo anno è stato distrutto, essere ottimisti sul futuro del mercato del lavoro è un’operazione che può apparire spericolata. Ma se si sceglie di concentrare la nostra attenzione anche su ciò che durante la pandemia è stato costruito, essere ottimisti sul futuro del mercato del lavoro diventa un’operazione meno spericolata, che può meritare di finire anche sulla copertina del settimanale più famoso del mondo: l’Economist. L’Economist di questa settimana ha scelto di dedicare un ampio dossier proprio al tema del lavoro e lo ha fatto offrendo buone ragioni per non essere pessimisti rispetto ai mesi che verranno.

 

La pandemia, ovviamente, ha avuto un impatto terribile sui lavoratori di tutto il mondo, ha distrutto ovunque milioni di posti di lavoro e ha provocato un calo dell’occupazione quattordici volte più grande rispetto a quello generato dalla crisi finanziaria di un decennio fa. Ma allo stesso tempo ha costretto il mondo del lavoro a proiettarsi nel futuro, ad accelerare alcuni processi, a riavvitare alcuni bulloni e a mettere in circolo trasformazioni che potrebbero avere sulla ripresa un impatto positivo.

 

La pandemia, come capita di vedere ogni giorno a chiunque lavori in un’azienda, ha modificato radicalmente l’approccio di molti capi d’azienda al mercato del lavoro, portando i vertici a misurare la qualità dell’operato dei propri dipendenti partendo non dal tempo trascorso a fare una cosa ma dai risultati ottenuti. Ha portato a questo ma anche a molto altro. Ha costretto le aziende a investire sulla propria internazionalizzazione, ha obbligato i manager a scommettere sull’innovazione, ha portato le piccole o grandi società a incentivare la formazione dei propri dipendenti, ha permesso alle istituzioni di trovare mediazioni utili per tutelare diritti come quelli della gig economy, ha obbligato i sindacati a utilizzare in modo meno dogmatico la contrattazione collettiva, ha trasformato l’aumento dei salari in una priorità per la politica mondiale, ha portato i lavoratori, vedi il referendum americano su Amazon, a non considerare più la sindacalizzazione di un’azienda come l’unica strada per avere più diritti, ha portato le banche centrali ad azionare le proprie leve interessandosi un po’ meno all’inflazione e un po’ più ai posti di lavoro.

 


Ha portato lavoratori, manager e capitani di impresa a considerare finalmente la produttività non come un tabù da evitare a tutti i costi ma come un’opportunità per poter rafforzare la propria azienda, per poter razionalizzare le proprie energie, per poter creare altro lavoro e persino in prospettiva per poter guadagnare di più. Più innovazione uguale più organizzazione. Più organizzazione uguale più produttività. Più produttività uguale più crescita. Più crescita uguale più ricchezza. Più ricchezza uguale salari più alti. I salari, già.

 

L’Economist, a questo proposito, cita la storia di Jamie Dimon, un famoso dirigente d’azienda americano, presidente e ceo di JPMorgan Chase, la più grande delle quattro maggiori banche americane, in passato membro del consiglio d’amministrazione della Fed di New York, che in una lettera inviata la scorsa settimana ai suoi azionisti ha inserito un appello interessante. Tesi: è ora di migliorare i salari per i lavori poco qualificati.

 

Svolgimento: in primo luogo dovremmo aumentare il salario minimo federale e consentire agli stati, in base alle condizioni locali e ai tassi di disoccupazione, di apportare ulteriori aggiustamenti; in secondo luogo dovremmo chiedere alla politica di offrire a tutti noi la possibilità di concentrare i suoi sforzi sulla massimizzazione degli incentivi per far lavorare il numero più alto possibile di persone riducendo al minimo gli incentivi per i datori di lavoro a licenziare i lavoratori, in particolare i dipendenti a bassa retribuzione. Non sarà facile per l’Europa, quando il piano di vaccinazione sarà completato, riuscire a far galoppare il mercato del lavoro del continente a una velocità pari a quella americana (secondo i dati del Fondo monetario internazionale, gli Stati Uniti, che al momento hanno un tasso di disoccupazione pari al 6 per cento, lontano dal 14,7 per cento di maggio 2020, e che a marzo 2021 hanno creato 900 mila nuovi posti di lavoro, cresceranno del 6,4 nel 2021 e del 3,5 nel 2022, mentre le stime per l'Europa sono pari a un più 4,4 per cento nel 2021 e un più 3,8 per cento nel 2022, con una disoccupazione che nell’intera Unione europea si attesta all’8,3 per cento).

 

Ma il nuovo metodo di lavoro costruito durante i mesi della pandemia e fotografato magnificamente dall’Economist potrebbe portarci a essere ottimisti rispetto alla domanda che in molti si porranno nei prossimi mesi anche in Italia quando il blocco dei licenziamenti finirà e quando anche l’Italia entrerà finalmente nella fase della ricostruzione.

 

E la domanda è questa: ci sono possibilità che la stagione pandemica abbia offerto al mercato del lavoro degli anticorpi per essere più forte di prima? L’Economist dice di sì. E se l’Italia avrà una classe dirigente all’altezza di questa sfida la risposta a questo interrogativo potrebbe essere meno scontata e meno pessimistica di quel che si crede oggi.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.