Nel Regno Unito riaprono negozi, ristoranti, pub e parrucchieri (LaPresse) 

Senza rischio non c'è futuro

Claudio Cerasa

Tergiversare sui vaccini è un pericolo infinitamente più grande rispetto al rischio di essere vaccinati. Lezioni utili per Draghi dal Regno Unito. Obiettivo: alternative alla dittatura della precauzione

Guardi le immagini allegre che arrivano dal Regno Unito, guardi il numero mostruoso di vaccinazioni fatte, guardi le foto dei ragazzi che tornano nei pub, guardi il numero di contagi improvvisamente sotto controllo, guardi il numero dei morti finalmente non allarmante, guardi le prime pagine non allarmistiche dei giornali inglesi e con naturalezza senza alcun pregiudizio antieuropeista non puoi non chiederti come sia possibile che stia succedendo quello che stiamo vedendo ormai da giorni. Ovverosia che a un tiro di schioppo dalle nostre città e dalle nostre vite ci sia una nazione che dopo aver rischiato un anno fa di toccare il fondo si ritrova oggi a sfiorare con un dito il cielo della normalità.

 

Il ritorno a una nuova normalità lo si deve a una campagna di vaccinazione di grande successo (hanno ricevuto la prima dose 32 milioni di persone), lo si deve a un lockdown prolungato (a marzo è stato registrato un calo dei decessi pari al 92 per cento rispetto a gennaio), lo si deve anche all’aiuto che il Regno Unito ha ricevuto dalla cattivissima Unione europea (due terzi delle dosi somministrate dal Regno Unito sono state importate dall’Ue) ma lo si deve anche a qualcosa di molto meno materiale che corrisponde a un approccio diverso avuto in questi mesi dall’Inghilterra rispetto al tema della cultura del rischio.

 

Un approccio per alcuni versi spericolato, molto rischioso appunto, che ha permesso però al Regno Unito di Boris Johnson –, che appena un anno fa considerava il Covid-19 niente di più che un’influenza – di ottenere alcuni risultati importanti.

 

Primo: partire con la campagna di vaccinazione prima dell’autorizzazione dell’Ema. Secondo: utilizzare anche per gli anziani il vaccino di AstraZeneca nonostante i pochi test effettuati su quella fascia di popolazione. Terzo: ritardare la somministrazione della seconda dose per vaccinare il maggior numero possibile di persone almeno con la prima dose. Quarto: stipulare con le case farmaceutiche contratti capaci di prevenire il rischio del ritardo delle consegne (il contratto firmato dal Regno Unito con AstraZeneca, come notato il 22 febbraio da Politico, concede a quell’azienda di non essere in violazione con il governo in presenza di una “variazione minore nei programmi di consegna fino a cinque giorni lavorativi”, mentre il contratto dell’Ue non entra in questo livello di dettaglio).

 

In un bellissimo articolo pubblicato due giorni fa dal Telegraph, l’esperto di salute del quotidiano inglese, Paul Nuki, ha provato a ricercare in modo non ideologico la radice della differenza di approccio che esiste tra Regno Unito e Unione europea sul tema del rischio ed è arrivato ad alcune conclusioni interessanti. Il Telegraph scrive che il percorso accidentato che il vaccino AstraZeneca ha avuto in Europa ha molto a che fare con i diversi modi in cui i regolatori si avvicinano alle prove e giudicano il rischio rispetto alla politica. Un esempio? La decisione iniziale di alcuni paesi, come Francia, Germania e Italia di limitare l’uso del vaccino ai gruppi di età più giovane. Scelta che deriva dal fatto che il vaccino non era stato ben testato fra le categorie più anziane negli studi originali. Un elemento vero, di fronte al quale però il Regno Unito ha scelto di contrapporre un rischio diverso: la possibilità di morire a causa del Covid-19.

 

Il rischio che il vaccino possa avere qualche effetto avverso non è dunque sottostimato ma è posto su una scala diversa in base alla quale il ritardo di un solo giorno per essere vaccinati costituisce un pericolo infinitamente più rischioso del vaccino stesso.

 

L’avversione al rischio dei governi europei è per cultura, storia e tradizione lontana da quella dei paesi anglosassoni (su questo fronte, molto c’entrano i tic anti Big Pharma) e anche per questo la capacità di padroneggiare il rischio in modo corretto, e coraggioso, vale per AstraZeneca e vale anche per J & J, è forse una delle sfide più importanti di fronte alle quali si trova oggi l’Europa e in particolare Mario Draghi, che nelle prossime settimane avrà il compito non facile di mostrare con i fatti all’Italia e forse anche all’Europa (che come racconta David Carretta, ieri ha annunciato una svolta coraggiosa sui vaccini a Rna) un’alternativa alla dittatura della precauzione. Come ci dimostra Boris Johnson imparare dai propri errori non è semplice ma forse si può. E almeno su questo fronte la Gran Bretagna offre spunti utili per il nostro futuro.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.