Come si muovono i poteri nell'éra Draghi
Come sta cambiando l’élite nella nuova stagione? Come ha fatto la borghesia a depoliticizzarsi? Che criterio seguirà il premier nelle nomine? Indagine (con nomi) sulle due sfide della classe dirigente
Chi comanda in Italia? L’arrivo di Mario Draghi alla guida del governo ha costretto la politica a entrare in una nuova stagione caratterizzata da un numero indefinito di stress test quotidiani, molti dei quali hanno avuto un effetto dirompente sulla vita dei partiti. Nessuno dei partiti che appoggiano il governo Draghi ha caratteristiche simili a quelle che aveva durante la stagione precedente (il Pd ha cambiato segretario, il M5s sta cambiando leader, la Lega ha cambiato linea) ed è possibile che il rimescolamento degli equilibri possa generare sulla politica effetti a medio termine destinati a portare benefici al paese (per un paese come l’Italia che tre anni fa ha premiato in Parlamento partiti antieuropeisti non è male – in prospettiva futura – aver cancellato una buona dose di antieuropeismo dai partiti antieuropeisti). Negli ultimi tempi, gli osservatori hanno dedicato molta attenzione allo stress test che Draghi ha imposto alla politica ma ne hanno dedicato meno a un altro stress test parallelo, altrettanto importante, che ha involontariamente avviato l’ex governatore della Bce. E quello stress test corrisponde a una domanda: Draghi a parte, chi comanda in Italia?
Per provare a rispondere a questo quesito occorre concentrarsi su due fronti principali. Il primo ha a che fare con la nuova geografia di quello che un tempo avremmo chiamato l’establishment del nostro paese. Il secondo fronte ha a che fare con il futuro delle società partecipate dallo stato destinato a essere pesantemente ridisegnato da Draghi entro l’estate. La prima impressione che si ricava osservando da vicino i ruoli che contano all’interno del panorama della borghesia italiana è che le élite del paese sono arrivate all’appuntamento del nuovo governo divise in due fronti. Da un parte vi è un’élite poco globalizzata che tenta ancora di esercitare un’influenza sul mondo della politica, dall’altra vi è un’élite internazionalizzata che nel corso del tempo ha portato avanti in modo più o meno volontario un processo progressivo di depoliticizzazione. La stagione dei manager ibridi cresciuti a cavallo tra politica e borghesia – una stagione di cui ha fatto parte Giovanni Bazoli, che Beniamo Andreatta avrebbe voluto candidare premier al posto di Romano Prodi; di cui ha fatto parte Giuseppe Guzzetti, che ha guidato la regione Lombardia prima di arrivare alla guida delle fondazioni italiane; di cui ha fatto parte anche Fabrizio Palenzona, che prima di arrivare ai vertici di Unicredit è stato a lungo un esponente della Democrazia cristiana – ha ceduto il passo a una generazione diversa dominata da manager che tranne rare eccezioni con la politica vogliono avere poco a che fare. E’ così, per esempio, per la famiglia Elkann, proprietaria del gruppo Gedi, per la quale i giornali sono più uno strumento per provare a fare business che per provare a fare politica (Rep. è passata dall’essere il giornale con in tasca la tessera numero uno del Pd all’essere il giornale con in tasca la tessera numero uno degli interessi della famiglia Agnelli).
E’ così, per esempio, per la famiglia Del Vecchio, azionista di Mediobanca, di Generali e di Unicredit e che esercita la sua influenza sul mondo di Generali dall’alto di un’azienda quotata in Francia (Luxottica) e di una residenza che oscilla tra Montecarlo e Lussemburgo (lo stesso ad di Generali, Philippe Donnet, è infinitamente più interessato alla politica francese che a quella italiana, e la stessa Mediobanca tende oggi a stare il più possibile lontano dalla politica e a dedicarsi al business e all’advisoring). E’ così, per esempio, anche per un gigante come Intesa Sanpaolo (il cui primo azionista è la Fondazione San Paolo, passata negli anni dall’essere guidata da un politico come Sergio Chiamparino a un tecnico come Francesco Profumo), che attraverso il suo management svolge la funzione di banca di sistema senza dover avere per questo un amministratore delegato (Carlo Messina) costretto a muoversi come banchiere di sistema. Ed è così in fondo anche per altri pesi massimi dell’establishment come Unicredit (che pur avendo manager non estranei alla politica, il presidente di Unicredit è l’ex ministro dell’Economia ed ex deputato del Pd Pier Carlo Padoan, vede nella politica più un fattore di rischio che di opportunità), come Unipol (il cui amministratore delegato Carlo Cimbri ha fatto di tutto per depoliticizzare l’assicurazione delle cooperative) o come Pirelli (il cui numero uno in Italia, Marco Tronchetti Provera, ama certamente la politica ma la osserva a debita distanza essendo Pirelli diventata nel corso degli anni un’azienda a vocazione internazionale al punto da aver messo il pacchetto di maggioranza in mano alla società cinese ChemChina).
Una storia diversa è forse quella di Urbano Cairo, editore di Rcs, il cui business si trova prevalentemente in Italia e che non a caso è – tra i poteri che contano – quello che ha maggiori tentazioni politiche, così come una storia diversa è forse quella di Francesco Caltagirone, imprenditore, editore, secondo azionista di Generali, che ha da poco superato l’un per cento di Mediobanca e che pur avendo un’azienda internazionalizzata considera invece giusta la possibilità che la classe dirigente oltre a occuparsi del business provi ad avere un peso nel dare un indirizzo all’agenda del paese. Per il resto la regola sembra valere per tutti: la globalizzazione ha depoliticizzato i cosiddetti poteri forti. E deve essere anche per questo che non c’è un solo potere forte in Italia che possa rivendicare una qualche forma di influenza sul potere forte che si trova a capo del governo. Un po’ perché il modello di borghesia che impersonifica il presidente del Consiglio è un modello che la poco internazionalizzata borghesia italiana ha fatto di tutto per non avere negli ultimi venticinque anni. Un po’ perché Mario Draghi incarna il profilo di un potere divenuto forte anche grazie alla sua autonomia. E anche per questo sarà interessante osservare nelle prossime settimane come si muoverà, Draghi, quando si ritroverà per la prima volta a fare delle scelte potenzialmente divisive che avranno un impatto non secondario sulla formazione di un’altra classe dirigente: quella che vive nell’universo delle infinite società partecipate dallo stato. Da qui alla fine dell’anno, tra partecipazioni dirette e indirette, tra cda e collegi sindacali, ci sono circa cinquecento nomine che spettano al governo (le sole 15 partecipate dirette con organi in scadenza muovono un giro d’affari di 70 miliardi). E alcune di queste nomine sono pesanti. Si deciderà che fare con la guida di Cassa depositi e prestiti, delle Ferrovie dello stato, dell’Anas, della Rai e di Invimit. E per ognuna di queste nomine la domanda che gli osservatori si pongono è sempre la stessa: che metodo utilizzerà Draghi per ridisegnare la mappa dei poteri? Negli ultimi giorni, il presidente del Consiglio ha offerto a chi si occupa di questi dossier alcune indicazioni preliminari che potremmo provare a sintetizzare così: la politica verrà coinvolta per quanto riguarda la scelta dei cda, ma le nomine importanti verranno decise senza mediazioni dal presidente del Consiglio. Non significa che Draghi non voglia discutere delle nomine con nessuno – lo farà con il suo staff a Palazzo Chigi, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, con il consigliere Francesco Giavazzi e con il capo di gabinetto Antonio Funiciello. Non significa che Draghi non abbia una rete di rapporti personali usata in queste settimane per confrontarsi su alcune partite delicate – Paolo Scaroni e Franco Bernabè, appena diventato presidente dell’Ilva, sono amici storici con cui Draghi ha contatti non episodici, così come persone che all’interno della politica hanno una buona interlocuzione con il premier sono Paolo Gentiloni e Romano Prodi, mentre la conferma recente di un vecchio dalemiano come Donato Iacovone alla presidenza di Webuild non deve trarre in inganno: i rapporti di Draghi con D’Alema non sono nulla di più che una formalità).
A differenza del passato, dunque, l’impressione è che le scelte che peseranno, su questo terreno, saranno dettate poco dall’appartenenza politica e molto dalla capacità dei futuri vertici di dare un tocco di internazionalizzazione alla guida delle società controllate dallo stato – ed è probabilmente anche per questo che secondo molti osservatori alla testa di Cdp potrebbe avere chance di arrivare un caro amico di Mario Draghi come Dario Scannapieco, attualmente vicepresidente della Banca europea degli investimenti, e chissà che un tentativo di internazionalizzazione non lo si tenti anche in Rai. La globalizzazione ha contribuito a depoliticizzare la classe dirigente italiana. Compito di Draghi sarà quello di portare alla classe dirigente dello stato un po’ meno politica e un po’ più mercato. L’altra sfida di Draghi, vaccini e Recovery a parte, in fondo è tutta qui. Good luck.