Il premier Mario Draghi (Ansa)

Tra tecnica e politica

Come se l'è cavata fino a oggi Draghi con il rischio calcolato

Marco Cecchini

Dal whatever it takes al Quantitative easing, fino alla lotta al virus. Lasciarsi guidare dai dati facendo attenzione all'impatto di ogni decisione fino a oggi si è rivelata una tecnica efficace. Basterà anche nella lotta al virus? 

 

Che cos’è il rischio calcolato (o ragionato) chiamato in causa da Mario Draghi, un po’ a sorpresa, per riaprire il Paese? Un’ovvietà? Una sofisticata tecnica decisionale? Un escamotage per dare lustro a decisioni controverse? La definizione dei manuali di management è lapidaria: trattasi del “criterio volto ad evitare l’esposizione a un rischio senza la prospettiva di un maggior vantaggio”. La sua applicazione interessa tutte le attività umane. Ma non per questo è così banale. Nel giugno del 1942 sulla base di questo principio l’ammiraglio Chester Nimitz, comandante in capo delle forze navali americane nel Pacifico, condusse la battaglia delle Midway e spianò la strada alla sconfitta finale del Giappone. Oggi quella battaglia si studia nelle accademie navali del mondo.

 

Draghi non aveva in mente la battaglia delle Midway quando in conferenza stampa qualche giorno fa ha estratto dal cilindro il concetto di rischio ragionato, sebbene la lotta al virus sia stata da lui stesso paragonata a una guerra nella famosa intervista al Financial Times. È certo tuttavia che da sempre è questo il principio che guida le sue scelte, a cominciare dalle più eclatanti come il whatever it takes o il lancio del Quantitative easing (Qe). Quando nell’estate del 2012 l’Europa politica franava e la fine dell’euro sembrava vicina, il mondo guardava a Francoforte in cerca di un segnale. Ma Draghi continuava a studiare i dati, si informava sugli umori dei mercati, ponderava le possibili vie d’uscita con pochi fidati collaboratori. Aspettava in altre parole che maturassero le condizioni di un bilanciamento ottimale tra rischi e vantaggi in modo da massimizzare le probabilità di successo di una iniziativa. Quando sul mercato si formò un volume di posizioni speculative al ribasso sull’euro tale che una decisione credibile per il salvataggio della moneta avrebbe potuto rovesciare le aspettative degli operatori e innescare il rimbalzo della moneta unica, agì.

 

 

 

Tre anni dopo, il lancio del Quantitative easing fu anch’esso preceduto dall’attesa che si creassero condizioni di rischio-vantaggio ottimali per operare. L’euro era stato messo in salvo, ma l’economia ristagnava, i prezzi scendevano e l’Unione aveva davanti il mostro della deflazione. Prima di arrivare al Qe la Bce tentò la via dei tassi negativi mentre continuava a inondare di denaro le banche, il sistema però non rispondeva agli stimoli e i tedeschi resistevano all’idea. Quando risultò evidente che non vi era altra via d’uscita per evitare la deflazione Draghi scese in campo con l’appoggio dei francesi. L’economia ripartì e successivamente la Bce ritirò il Qe per poi reintrodurlo. Oggi è ancora li, Christine Lagarde l’ha confermato.

 

Sia nel caso del whatever it takes che in quello del Quantitative easing l’obiettivo di Draghi non era solo la minimizzazione dei rischi economici ma anche di quelli politici che si sostanziavano fondamentalmente nella possibile perdita della coesione necessaria a gestire il Consiglio dei governatori. Comunque sia il principio del rischio ragionato in questi casi (nel whatever it takes più che nel Qe) ha funzionato. Funzionerà anche nella lotta al virus? Tra oggi e allora la differenza maggiore è che l’enormità dell’emergenza pandemica richiede tempi veloci di reazione e comprime dunque lo spazio per una valutazione ponderata delle decisioni. Alla luce delle ultime scelte sulle riaperture, di questo Draghi sembra tuttavia essere consapevole. Tra allora e oggi le analogie riguardano da un lato l’importanza attribuita ai dati, dall’altra la considerazione ancor più forte semmai dell’impatto politico delle decisioni. Nello schema Draghi è la fredda analisi dei numeri a indicare la direzione di marcia, ma è la sua associazione con la minimizzazione del rischio politico ad assicurare il raggiungimento dell’obiettivo. È il paradosso del tecnico che è anche politico. 
 

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