Il premier Mario Draghi (LaPresse)

Oltre il Pnrr c'è di più

Il pragmatismo di Draghi in 5 sfide

Claudio Cerasa

Aspi, Ilva, Mps, Alitalia, rete unica. E poi la geopolitica, il ruolo di Cdp, il rapporto con la Cina, le discontinuità. Da dove passa una svolta nel rapporto tra stato e mercato

Nomine, scelte, pragmatismo, stato e popcorn. Tra le sfide più complicate che lentamente si affacciano all’orizzonte del governo Draghi ce n’è una importante che si trova a metà strada esatta tra la politica e l’economia e che viaggia su un binario parallelo rispetto alla partita del Recovery plan. Si è detto, rispetto al destino del Pnrr, che il successo del governo Draghi si misurerà anche dal modo in cui il presidente del Consiglio riuscirà a mettere a terra i soldi che arriveranno dall’Europa non per appesantire ancora di più lo stato ma per provare a renderlo più competitivo, più produttivo, più concorrenziale e in definitiva più efficiente. E già dalle prossime settimane sarà possibile capire se le promesse di Draghi saranno qualcosa in più di semplici buone intenzioni (tra maggio e giugno il governo dovrà presentare una legge sulla Pubblica amministrazione, un decreto sulle semplificazioni, una norma per superare il codice degli appalti, un progetto per riformare la giustizia).

 

Per misurare il coraggio reale che avrà Draghi nell’imprimere una direzione nuova rispetto alla presenza dello stato nell’economia non sarà necessario aspettare la concretizzazione dei decreti legge ma sarà sufficiente osservare il modo in cui il presidente del Consiglio sceglierà di muoversi su cinque partite non meno importanti rispetto al futuro del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Cinque partite all’interno delle quali il governo dovrà dimostrare di saper combattere un virus politicamente letale denunciato due giorni fa dallo stesso Draghi al Senato: l’inerzia istituzionale. La prima partita ha a che fare con il futuro di Aspi (Autostrade per l’Italia). La seconda con Ilva. La terza partita ha a che fare con la rete unica. La quarta con Mps. La quinta con Alitalia. Fino a oggi, il pragmatismo di Draghi su alcune importanti partite industriali ha mostrato di essere qualcosa in più di una semplice e notarile attività di mediazione tra le parti.

 

E non è certo un caso che nel giro di due mesi il governo italiano sia riuscito a trasferire sul tessuto industriale del paese un’indicazione geopolitica (più America, meno Cina) mai stata così evidente negli ultimi anni: il governo ha usato il golden power per bloccare l’acquisizione cinese di un’azienda lombarda specializzata in semiconduttori, ha imposto prescrizioni sui contratti di fornitura di tecnologia 5G ad aziende italiane da parte dei giganti cinesi Zte e Huawei, ha osservato con soddisfazione la mancata vendita di Iveco ai cinesi di Faw Jiefang e ha registrato con piacere la notizia che tra i fornitori della Radio Access Network 5G di Tim non ci sarà la stessa Huawei alla quale Tim, partecipata al 10 per cento dallo stato attraverso Cdp, proprio negli scorsi giorni ha inviato una lettera di disdetta di un contratto sottoscritto nel 2020. La spinta geopolitica è molto chiara, mentre non è ancora chiaro a cosa corrisponda l’idea di Mario Draghi di avere per l’economia, come ha recentemente avuto modo di dire al ministro Daniele Franco, “uno stato ambizioso, disposto a privatizzare quando si può e pronto a nazionalizzare quando è necessario per difendere gli interessi nazionali”. Che cosa può voler dire tutto questo? Dove si possono cercare tracce dell’impostazione di Draghi nelle partite che abbiamo appena elencato? E soprattutto, su questi terreni, esiste o no una discontinuità con il governo precedente?

 

La prima partita, il futuro dello stato in Aspi, è quella più attuale ed è una partita che si andrà a definire nelle prossime ore, quando il cda di Atlantia (che controlla Aspi) dovrà decidere che cosa fare con la proposta di Cdp di acquisire il 100 per cento di Aspi (Aspi valuta il suo pacchetto tra 9,5 e 10,5 miliardi, l’offerta di Cdp, prima di ieri sera, arrivava a quota 9,1 miliardi). Su questa partita, i margini di azione per il governo non sono molti, di fatto Draghi sta cercando di gestire un dossier ereditato dall’esecutivo precedente ma qualcosa potrebbe accadere qualora si dovesse passare a un piano B e qualora il governo dovesse spingere Cdp a prendere una strada ambiziosa: non più usare i soldi di Cassa depositi e prestiti per acquisire Aspi ma usare una parte di quei soldi per acquisire la percentuale (30,2 per cento) con cui i Benetton controllano Aspi (di cui hanno l’88 per cento).

 

 Acquisire un controllo di fatto di Atlantia (che in tutto vale circa 14 miliardi) significherebbe trasformare gli aeroporti italiani (Atlantia controlla Fiumicino e Ciampino, oltre allo scalo di Nizza in Costa Azzurra) in un tassello del mosaico dell’interesse nazionale ma la partita è molto complicata e ciò che forse può cambiare in caso di bocciatura da parte del cda di Aspi dell’offerta di Cdp è un piano B caratterizzato da un impegno più leggero da parte dello stato: una quota vicino al 10 per cento di Aspi con diritti di governance per lo stato e controllo diretto sull’attività di regolazione. Il secondo capitolo è quello che riguarda Ilva e su questo fronte ciò che è cambiato rispetto al governo precedente (anche grazie al ministro Roberto Cingolani) non è la partecipazione dello stato nel progetto Ilva ma è il senso della sua partecipazione, non più finalizzata a rincorrere l’utopia grillina dell’“acciaio green” (che non vuol dire nulla) bensì finalizzata a scommettere sulla siderurgia italiana attraverso un nuovo approccio sul tema della CO2 (il governo precedente, voleva produrre acciaio senza inquinare, il nuovo governo ha dato mandato alla nuova Ilva di lavorare a un progetto di cattura e di riutilizzo della CO2, simile a quello già testato con successo dall’Eni nell’offshore Adriatico di fronte a Ravenna).

 

La terza partita è quella che ha a che fare con la rete unica e anche qui si può dire che qualcosa stia cambiando. L’idea di Conte (e di Bassanini) era quella di fare una società in cui conferire la rete Tim e quella Open Fiber e questa società (di cui Tim avrebbe voluto comunque mantenere il controllo) sarebbe stata di fatto l’unico operatore infrastrutturale in Italia (modello Terna). Al contrario, l’idea di Colao è quella di lasciare Tim e Open Fiber lì dove stanno dando allo stato non il ruolo di proprietario/investitore della rete ma quello di “incentivatore” di investimenti realizzati da privati, che possono essere Tim, Open Fiber ma potenzialmente anche altri (Eolo, Fastweb, Tiscali...). L’idea di fondo è: concentriamoci sullo sviluppo delle reti dove mancano, evitando duplicazioni, senza perdere ulteriore tempo sul tema della fusione. Lo stato c’è (e il fatto che nel Pnrr vi siano quasi 7 miliardi sulla banda larga, più del doppio rispetto a quanto stanziato dal precedente governo, da spendere in cinque anni non consente di tergiversare) ma lo stato nella logica Draghi-Colao (logica che allo stato attuale non sembra coincidere con quella di Cdp) deve intervenire per guidare i processi, non per controllarli.

 

La quarta partita non meno importante ha a che fare con il destino di Mps (controllata al 68,2 per cento dallo stato attraverso il Mef) e su questo fronte Draghi si giocherà nei prossimi mesi una partita cruciale anche dal punto di vista simbolico: la traiettoria di Mps ha coinciso con un’esperienza che il presidente del Consiglio ricorda certamente come uno dei rari passaggi non positivi della sua carriera personale (la fusione tra Mps e Antonveneta, maturata con Draghi alla guida di Bankitalia, non ha avuto fortuna, per così dire) e oggi il Draghi capo del governo potrebbe riuscire in un’impresa che nel 2007 non gli riuscì tentando cioè un modo efficace per trasformare Monte dei Paschi di Siena non nella costola di Unicredit bensì nel cuore del terzo polo bancario italiano (gli occhi del Mef sono puntati su Bpm, Carige, Bper e Unipol). Un progetto ambizioso dello stato su Mps non può che passare da qui (l’inerzia fa male, no?) così come un altro progetto ambizioso da parte dello stato non può che essere quello che passa da un’idea che Draghi ha chiara nella sua mente: far sì che lo stato possa avere un ruolo in Alitalia non per avere una compagnia di bandiera nazionalizzata ma per accelerare la transizione di Alitalia verso una nuova casa chiamata Lufthansa.

 

È quello che vorrebbe Draghi, è quello a cui sorprendentemente sarebbe disposto a lavorare anche il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti ma è quello che da anni tentano di fare molti governi fino a un secondo prima di dover fare i conti con il numero di esuberi naturale a cui dovrebbe far fronte Alitalia in caso di fusione con un altro vettore. Cinque partite, cinque progetti, cinque problemi, cinque terreni su cui misurare il coraggio del governo Draghi. In attesa naturalmente di capire se il pragmatismo sbandierato dal governo – al lavoro in queste ore per capire se davvero Dario Scannapieco prenderà il posto di Fabrizio Palermo in Cdp e se davvero Luigi Ferraris prenderà il posto di Gianfranco Battisti alle Ferrovie dello stato – avrà o no un riflesso anche sulla grande e imminente partita delle nomine. Preparare i popcorn. 

 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.