Tra spinte e freni
Concorrenza? Il cosa fare è super. Il come lo è meno
La grande scommessa del Pnrr è che il vincolo esterno basterà a vincere le resistenze ideologiche e corporative. Ma di fatto di Draghi ha una sola freccia nella sua faretra: ogni misura rinviata a un provvedimento successivo è avvolta nelle nebbie
“Concorrenza” è una parola importante nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il termine ricorre quarantadue volte – erano tre nella bozza approvata dal Governo Conte – e ha un grande peso specifico sia nella comunicazione del premier Mario Draghi sia nel negoziato sotterraneo con la Commissione europea. Leggendo il Pnrr si ha, però, la sensazione che convivano all’interno dell’esecutivo due anime: l’una spinge per le riforme, l’altra si sforza di frenarle, annacquarle, indebolirle. Il problema è che quest’ultima sembra trovarsi maggiormente in sintonia coi partiti, col Parlamento e forse con l’intero paese. Altrimenti, la promozione della concorrenza non sarebbe una componente così puntuale delle raccomandazioni di Bruxelles: sempre promessa e quasi mai mantenuta. Anzi, nel corso della corrente legislatura le forze politiche che oggi sostengono Draghi hanno votato diverse norme di chiara portata anti-concorrenziale, con cui bisogna fare i conti. La domanda rilevante è: quanto è credibile un impegno che si proietta avanti negli anni e, addirittura, scavalca il confine della legislatura? La Commissione avrà davvero la forza politica di bloccare i finanziamenti all’Italia, se non verranno rispettati gli impegni riformisti?
La promessa centrale, ricordata da Draghi in Parlamento, è di fare della legge per la concorrenza un appuntamento annuale, per affrontare in modo sistematico i temi sollevati dall’Antitrust (Il Foglio, 23 marzo 2021). È qui che emerge un primo tema: il Pnrr è tanto esplicito nel suonare la grancassa della concorrenza, quanto parco nei dettagli e ambiguo nelle formulazioni. Facciamo alcuni esempi. Come ha notato Carmine Fotina sul Sole 24 ore di ieri, le uniche misure per le quali vi è un impegno esplicito a intervenire già nel disegno di legge previsto per il prossimo luglio riguardano alcune semplificazioni per la banda ultralarga, gli incentivi alla domanda di connettività e la riforma delle concessioni portuali. Quest’ultima, in particolare, potrebbe essere dirompente, ma il Pnrr non scopre le carte né lascia intendere in quale direzione andrà.
Altri impegni appaiono vincolati a una tempistica quanto meno curiosa. È il caso dei diversi (e importanti) interventi in materia energetica. Con la legge 2022 si darà “tempestiva attuazione dei piani di sviluppo della rete per l’energia elettrica”. Il Ministero dello Sviluppo economico ha dato poche settimane fa il via libera al Piano 2018, mentre Terna ha già adottato quello relativo al 2020 su cui si è pure pronunciata l’Autorità per l’energia. Superare questo disallineamento è fondamentale, anche alla luce degli enormi investimenti previsti per la transizione ecologica: ma che senso ha una revisione normativa l’anno prossimo, quando nel giro di poche settimane il ministro Roberto Cingolani dovrà esercitare la delega per il recepimento della direttiva sul mercato interno dell’energia elettrica, oggetto tra l’altro di un’infrazione europea? È quella la sede per affrontare il problema. Allo stesso modo, suona quasi come una beffa la promessa di sciogliere con la legge 2022 il nodo sull’idroelettrico, tema sul quale si trascina un’infrazione dal 2011. E certo non rassicura l’impegno a completare la liberalizzazione del mercato elettrico entro il 2023 – altro tema che la Commissione rimarca con insistenza nelle raccomandazioni – attraverso la “legge annuale concorrenza o altro provvedimento normativo”. Infatti, non serve alcuna legge: basta dar seguito alle norme già in vigore, emanando finalmente i provvedimenti attuativi e mettendo fine al balletto dei rinvii (la liberalizzazione, originariamente prevista per il 2019, è stata rimandata prima al 2020, poi al 2021 e adesso al 2023). Pure sulla distribuzione locale gas, il Pnrr annuncia semplificazioni in arrivo nel 2022: ma, in questo modo, anziché spingere i comuni renitenti a bandire le gare, rischia di bloccare quelli virtuosi, per timore che le regole cambino in corso d’opera. Benissimo, poi, adottare criteri trasparenti per l’assegnazione degli spazi per le colonnine di ricarica elettrica ed eliminare la regolamentazione dei relativi prezzi adottata l’anno scorso contro tutti i principi europei: ma quando?
Altre proposte ancora avrebbero portata autenticamente rivoluzionaria. I limiti agli affidamenti inhouse e l’obbligo per le amministrazioni di motivare la scelta di non ricorrere a procedure competitive sono un ever-green nelle raccomandazioni della Commissione. Una volta efficaci, porterebbero nel giro di pochi anni a una trasformazione dei servizi pubblici, con benefici per la qualità dei servizi e per i contribuenti (citofonare Atac). Anche di questo si parlerà nel 2022 ed è difficile non chiedersi come la prenderanno i partiti che hanno quasi all’unanimità gettato benzina sul fuoco dell’opinione pubblica, cavalcato i sentimenti anti-mercato e di fatto ostacolato (o respinto) qualunque tentativo di riforma. La questione caldissima delle concessioni autostradali viene addirittura rimbalzata al 2024. Eppure la partita per il controllo di Autostrade per l’Italia si giocherà nella prima metà di maggio, e il suo esito dipende anche dalle condizioni tariffarie, dalla durata effettiva della concessione e dalle modalità di verifica e controllo sulla sicurezza e gli investimenti. Dichiarare che i necessari adeguamenti normativi arriveranno dopo le elezioni equivale, di fatto, a blindare la rendita autostradale.
Inoltre, i tempi a disposizione sono limitati. In questa legislatura, l’approvazione dei disegni di legge di iniziativa governativa ha richiesto in media 283 giorni. Perfino per i collegati alle manovre di bilancio, che viaggiano su una corsia più rapida, ci sono voluti in media 122 giorni. A meno che il governo alla fine non decida di ricorrere al decreto, ciò significa che il ddl presentato quest’estate sarà approvato non prima dei primi mesi dell’anno prossimo. Quello targato 2022, visto l’approssimarsi del voto, ha ben poche chance di sopravvivere alle lungaggini parlamentari. E la legge 2023, beh, è nelle mani di Dio. Di fatto, quindi, Draghi ha una sola freccia nella sua faretra: ogni misura rinviata a un provvedimento successivo è avvolta nelle nebbie.
La grande scommessa del Pnrr (e dell’intero pacchetto Next Generation Eu) è che il vincolo esterno basterà a vincere le resistenze ideologiche e corporative. L’esperienza passata non è granché incoraggiante. Il Patto di stabilità e crescita ha contribuito a contenere deficit e debito degli Stati membri, ma non è stato realmente rispettato: l’Italia, per dirne una, nel 2012 ha introdotto addirittura in Costituzione il principio dell’equilibrio di bilancio, ma poi lo ha sempre rinviato senza raggiungerlo mai. Le privatizzazioni, con cui gli ultimi quattro governi si erano impegnati a tamponare il debito, sono perfino scomparse dal radar. E la stessa concorrenza, che era stata inserita tra le riforme strutturali grazie a cui l’Italia ha goduto delle clausole europee sulla flessibilità, è rimasta ai margini dell’attività governativa. La conferma lo stesso dibattito dei giorni scorsi: mentre Draghi ha sottolineato l’importanza delle leggi annuali, i parlamentari lo hanno pressoché ignorato e lo stesso premier non lo ha neppure menzionato nella sua replica. Che succederà se (e quando) le riforme non prenderanno corpo?
Più l’impegno si allontana nel tempo, più esce dal controllo diretto di Draghi, e più appare labile. Il giorno in cui arriverà da Bruxelles una lettera in cui si dirà – poniamo – che la successiva tranche di finanziamento è sospesa perché l’Italia non ha conformato la sua normativa nazionale sull’idroelettrico o le spiagge a quella europea, o non ha dato seguito alla riforma delle concessioni autostradali e dell’inhouse, come reagirà la politica italiana? Un assaggio, forse involontario, ce lo ha dato il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, con la denuncia preventiva dei “pregiudizi anti-italiani radicati negli anni” (Corriere della sera, 25 aprile). La verità è che i supposti pregiudizi sono semplicemente figli del nostro atteggiamento passato. Ecco: cosa dirà Orlando quando da Bruxelles ci faranno sapere che i soldi sono fermi? Cosa faranno Matteo Salvini e Giorgia Meloni? E i Cinque stelle? Riconosceranno di essere in difetto oppure andranno a “battere i pugni sul tavolo”? Sarebbe bello pensare che faranno un gesto di responsabilità e approveranno per direttissima le riforme in questione. Ma è più probabile che grideranno allo scandalo, al ricatto, alla dignità nazionale violata. Purtroppo il paese è quello che è e le uniche riforme veramente credibili sono quelle dei prossimi dodici mesi.