Mario Draghi (foto LaPresse)

l'analisi

I Draghi oltre la pandemia

Michele Salvati

Siamo sicuri che un governo tra forze politiche ideologicamente opposte debba essere considerata come un’esperienza unica piuttosto che una nuova normalità? Una sfida centrale per il Pd del futuro

L’Italia sta affrontando due grandi problemi che non si prestano ad essere risolti sulla base delle categorie ideologiche – di destra e di sinistra – alle quali i principali partiti si riferiscono. Il primo è un problema di efficacia/efficienza dello Stato in gran parte delle sue articolazioni: sistema politico, Stato centrale, singoli ministeri, regioni, enti locali e apparati pubblici in generale. E’ un problema antico che la pandemia, da un lato, e il disegno europeo di NGEU -con i suoi interventi mirati e condizionati- hanno reso solo più evidente: la divisione del lavoro tra Stato e regioni funziona male ed è molto scarsa l’efficienza/efficacia di molti settori pubblici, come tutti gli studiosi non si stancano di ripeterci. Oggi, quantomeno, si tratta di un problema molto discusso,  anche se le forze politiche, di fatto divise in base ai loro elettorati e alle corporazioni  cui sono legate, non sembrano in grado di risolverlo: tutte sono molto riluttanti ad affrontare le conseguenze elettorali che misure serie ed efficaci provocherebbero.

Ma c’è un altro problema, più strettamente legato alla pandemia, sul quale le principali forze politiche del nostro paese  propongono soluzioni inadeguate e inutilmente conflittuali, invece di mettersi al lavoro per trovare una soluzione cooperativa. Si tratta del problema  su cui torna sempre, inascoltato, il presidente della Repubblica: un problema di solidarietà e coesione nazionale. Questa è oggi minacciata da molte tensioni, ma da una sopra tutte: la divisione tra cittadini garantiti (per ora) nella continuità del loro reddito, e cittadini e che di questa “garanzia” non dispongono, perché le misure prese per frenare la diffusione del virus hanno impedito o ridotto la loro attività. Una divisione che, in prima approssimazione, vede da un lato l’intero settore pubblico e i pensionati, e dall’altro una parte del settore privato, il settore che dipende dalla vendita di beni e servizi sul mercato. Solo una parte del settore privato è stata impedita o fortemente ostacolata nello svolgimento della propria attività: imprese e lavoratori autonomi che operano nei settori della ristorazione, del turismo, dei servizi alla persona, in attività culturali e ricreative, nel commercio non alimentare... L’altra parte ha subito le conseguenze della recessione economica, ma non impedimenti legali all’esercizio della propria attività: è per questo che può venire aggiunta ai “garantiti” anche se, sul mercato, nessuno lo è.  

L’unica stima che ho letto è quella di Pietro Modiano (Domani, 14 aprile) e ad essa mi affido con beneficio di inventario perché il ragionamento che Modiano sviluppa è interessante quali che siano le definizioni e le stime numeriche di quanti sono stati più o meno danneggiati dalla pandemia e dalle misure prese per contrastarla . I “garantiti” sarebbero  circa i 2/3 della popolazione se ad essi si aggiungono i familiari: dunque circa 40 milioni. Mancano 20 milioni, circa 1/3, per arrivare al totale della popolazione italiana: su di essi si è in larga misura scaricato il costo (economico) della pandemia. Tutto questo in un contesto che ha visto la disoccupazione crescere di oltre un milione di persone e l’inasprirsi di altre diseguaglianze, in particolare quella tra uomini e donne sul mercato del lavoro. Tendenze destinate ad accentuarsi quando saranno eliminati i principali vincoli al licenziamento, a meno di un forte e rapido risveglio dell’attività economica, ciò che al momento sembra improbabile. Si tratta dunque di problemi che l’attuale  sistema di “ristori” o “sostegni” non può risolvere risarcendo in modo adeguato i “non-garantiti” e riattivando le loro esauste energie, se il debito pubblico dev’essere contenuto entro dimensioni che ne rendano possibile una pur lenta riduzione.

Modiano mette poi in evidenza un altro aspetto del problema. I “due-terzi” garantiti hanno alimentato un forte flusso di risparmi, in parte dovuto alla mancata spesa nei beni e servizi forniti dai settori la cui attività è stata impedita o ostacolata dai lockdown. Una parte dell’effetto negativo del Covid sul reddito nazionale si è dunque scaricato sui “non garantiti”con effetti disastrosi sul loro reddito: questo segmento minoritario della popolazione si è visto privato della spesa che ad esso si sarebbe rivolta se non ci fosse stata la pandemia e invece si è in parte trasformata in risparmi dei garantiti. L’effetto patrimoniale è stato dunque un arricchimento di questi ultimi (in parte intenzionale, dovuto soprattutto a preoccupazioni circa il futuro, in parte dovuto alla mancanza di occasioni di spesa) e un impoverimento dei primi, costretti dal bisogno a ridurre i consumi,  a liquidare i risparmi e contrarre nuovi debiti, se erano in grado di farlo. Come si fa a rimettere in funzione  il circuito economico e sociale che bene o male funzionava prima del Covid e intanto venire incontro ai bisogni più urgenti dei non garantiti? Non si potrebbero riversare nel circuito spesa/reddito gli “anomali” risparmi che nel frattempo si sono formati e sono oggi sterilizzati nei conti correnti dei garantiti?

 

Questo è il problema che maggiormente minaccia la coesione sociale del nostro paese. Un problema che poteva essere previsto anche ieri, e infatti lo è stato, ma che oggi cambia di intensità e natura a seguito dell’esistenza e della diffusione di vaccini efficaci. Nei prossimi mesi, se le vaccinazioni procederanno celermente, maggiori e controllate riaperture di tutte le attività che richiedono contatti diretti tra persone (dalla scuola, ai trasporti alle attività economiche e culturali) forse non daranno luogo a un numero crescente di infezioni e decessi e ad un intasamento insostenibile delle strutture sanitarie: era questo che giustificava il rigore dei lockdown dei mesi trascorsi. Certo, permane il dilemma che alimenta il contrasto tra “aperturisti” e “rigoristi”:  se nei prossimi mesi dovesse restare in vigore una politica rigorista le infezioni e i morti per Covid sarebbero sicuramente minori che in presenza di una politica aperturista, ma il trend alla riduzione forse si affermerebbe lo stesso, e sempre più nettamente mano a mano che la percentuale dei vaccinati sulla popolazione aumenta: questa è la rischiosa scommessa che sta facendo il governo e che i partiti appoggiano, per una volta tutti d’accordo. Non è possibile arrivare anche ad un accordo su misure che cerchino di porre rimedio alla lacerazione  sociale che intanto si è prodotta nella società italiana? 

A questo accordo non sono d’ostacolo i grandi orientamenti ideologici cui le principali forze politiche del nostro paese continuano a fare riferimento –lo ripeto ancora una volta- ma più banali e insidiosi calcoli di opportunità politico-elettorale: non c’è nulla nelle ragioni vere che distinguono destra e sinistra che induca a reagire in modo diverso ad una disgrazia che ha colpito in modo imprevedibile l’intero paese e ha indotto a misure necessarie, ma che hanno danneggiato in modo grave solo una parte della popolazione. E’ in nome della solidarietà nazionale che il Presidente della Repubblica ha formato l’attuale governo e i maggiori partiti hanno deciso di farne parte. Se è così, i partiti dovrebbero anche trovare un accordo su un’altra decisione, basata sull’esplicito riconoscimento di due fatti. Il primo è che una maggiore apertura non basterà da sola a rimettere una rilevante minoranza della popolazione italiana nelle stesse condizioni di cui godeva prima della pandemia e così a riparare al vulnus arrecato al principio di solidarietà nazionale. Il secondo è che a questo vulnus non è possibile rimediare aumentando a dismisura il debito mediante continui e ingenti scostamenti di bilancio: il debito pubblico è ormai arrivato a livelli che mettono a repentaglio le possibilità di una forte ripresa economica in futuro. Se esiste questo comune riconoscimento, si intuisce subito che l’unica alternativa è quella di utilizzare il risparmio che si è formato nell’area dei garantiti per sostenere redditi e attività economica nell’area dei non garantiti.

La società se ne è accorta e sono aumentate le donazioni verso enti e istituzioni che si occupano delle situazioni più disperate o addirittura piccole “patrimoniali fai da te”, com’è avvenuto di recente a Pavia (si legga Gad Lerner, “Una patrimoniale dal basso in nome di Papa Francesco”, Il Fatto Quotidiano, 13/04/2021). La politica tace, terrorizzata dal tabù di un’imposta patrimoniale. Premetto subito che, come economista, sono dello stesso avviso di gran parte dei miei colleghi appartenenti a tutti gli orientamenti in cui la nostra professione si divide: se si decide di trasferire risorse dei cittadini ad una autorità politica, un’imposta patrimoniale è il modo meno ingiusto e distorsivo per farlo. Ciò che è vero in astratto può però non esserlo in concreto, in condizioni in cui è impossibile censire l’effettiva ricchezza dei cittadini: se si eccettua un aumento moderato delle imposte di successione, anch’io trovo difficile immaginare altre imposte patrimoniali che diano un gettito adeguato rispettando elementari criteri di giustizia. Ma si tratta poi di una vera patrimoniale quella dei cittadini pavesi intervistati da Gad Lerner? A me sembra una imposta sul reddito, che si differenzia dall’Irpef perché grava soltanto su alcuni tipi di reddito  (salari, stipendi e pensioni) e ha uno scopo di destinazione: cittadini che di tali redditi “sicuri”non dispongono e sono stati impoveriti dalla pandemia e dalle sue conseguenze.

 

Per concludere qui mi limito solo a menzionare alcuni aspetti critici che pone un intervento dello stato che voglia replicare sul piano nazionale l’esperimento di Pavia e così raccogliere risorse ben maggiori di quelle che possono ottenere cittadini volonterosi e ben intenzionati. I beneficiari dell’esperimento pavese mi sembrano appartenere a due popolazioni diverse anche se spesso sovrapposte: i danneggiati dal Covid e dai lockdown, e i poveri, quale che sia la causa della loro povertà. I primi sono i destinatari dei vari ristori e sostegni sinora attuati e abbiamo appena notato che questi sono insufficienti ed accrescono il debito pubblico. I secondi dovrebbero avvalersi di quello che si era chiamato reddito di cittadinanza e che è più propriamente  un reddito minimo di inclusione, una rete nazionale di sostegno contro la povertà. Tra i “danneggiati”, infatti, ci sono anche molte persone che povere non sono, e non poche che, pur essendo povere, hanno la capacità e lo spirito di iniziativa per rimettere in funzione la vecchia attività o passare ad una nuova e più promettente se avessero un sostegno in conto capitale a costo nullo e non inferiore al danno che hanno effettivamente subito, da restituire dopo un congruo numero di anni. E hanno un chiaro titolo per pretenderlo in nome della solidarietà nazionale. 

L’imposta non è l’unico modo di mobilitare risorse per uno scopo meritorio, ed ha un aspetto coattivo che la rende sgradevole perché sottrae la scelta se essere generosi o no, e in che misura, ai singoli cittadini. L’alternativa ovvia è un grande prestito nazionale di solidarietà. Questo non può essere ripetuto e dunque non è adatto ad affrontare il problema della povertà, che dovrebbe basarsi su una legislazione nazionale durevole nel tempo, dunque da finanziare in via continuativa mediante imposte. Ma potrebbe essere adatto per i danneggiati che intendessero continuare o trasformare la loro attività. Il problema è in questo caso se il prestito incontrerebbe una sufficiente adesione da parte dei cittadini. Al di là delle condizioni con cui viene emesso, il successo dell’emissione dipenderebbe molto dal consenso delle forze politiche che sostengono il governo di solidarietà nazionale: se tutte fossero favorevoli e non ci fossero differenze tra destra e sinistra (perché poi dovrebbero esserci in questo caso?), e se fosse convincente il modo in cui i fondi raccolti verranno distribuiti tra i richiedenti, il prestito potrebbe avere buoni risultati e stimolare nuovi investimenti: parte dei risparmi di chi non ha sofferto economicamente per la pandemia tornerebbero in circolo e ci tornerebbero con un buon moltiplicatore. Un ampio consenso da parte di partiti di tutti gli orientamenti politici potrebbe in tal caso contrastare la sfiducia che i cittadini nutrono per lo stato e il futuro della nostra economia e rendere preferibile questa forma di utilizzo dei risparmi rispetto ad altre che oggi, per piccoli e medi risparmiatori, rendono comunque pochissimo.

 

Credo che a questo punto sia chiara la preferenza per un grande prestito di solidarietà nazionale i cui proventi siano destinati a soggetti significativamente danneggiati dai lockdown e che intendano riprendere la loro attività o passare ad un’altra che giudicano più promettente. Insieme ad un rafforzamento di una rete di sostegno contro la povertà, da finanziarsi mediante l’imposizione ordinaria, credo si tratti di una via percorribile e che andrebbe attentamente (e rapidamente) studiata.  Faccio solo un esempio. Una via che consentirebbe di erogare rimborsi significativi senza gravare sul debito pubblico è quella di un prestito attuato attraverso il sistema postale, finanziato dai tradizionali buoni fruttiferi, con eventuale garanzia dello stato: le condizioni di erogazione e di rimborso del prestito potrebbero poi essere studiate dalla Cassa Depositi e Prestiti in modo da renderne l’accesso agevole a soggetti danneggiati e seriamente intenzionati a riprendere e rilanciare la loro attività. Qui non è possibile addentrarsi nei particolari tecnici del disegno, e in ogni caso non avrei le competenze per farlo: non vedo però ostacoli di principio alla sua fattibilità mentre vedo l’interesse di questa soluzione per un governo di solidarietà nazionale nelle attuali condizioni dell’economia italiana.

Ma qui tocchiamo il punto più critico dell’intero esperimento del governo Draghi. Abbiamo più volte sottolineato che, se limitato nei suoi scopi all’eliminazione della pandemia e alla costruzione di un piano nazionale di rinascita che rispetti le condizioni richieste per ricevere i contributi del Recovery Fund, un governo tra forze politiche opposte e che torneranno ad opporsi finita l’emergenza non è impossibile: così è avvenuto in alcuni paesi democratici in condizioni di guerra. Ciò che minaccia il suo successo nelle attuali condizioni è la presenza incombente delle prossime elezioni politiche e il tentativo dei partiti di acquisire vantaggi propagandistici nel corso dello stesso esperimento di solidarietà nazionale: polemizzare continuamente con quelli che saranno i futuri avversari ma al momento sono alleati nello stesso governo, sollecitare le proteste dei cittadini, richiedere scostamenti di bilancio eccessivi, rifiutare ogni ricorso a forme di riequilibrio patrimoniale, sollecitare decisioni su temi controversi ed estranei ai compiti che un governo di solidarietà nazionale deve assumersi, non soltanto rende più difficile raggiungere gli obiettivi, limitati ma straordinariamente difficili, che questo si è dato, ma crea difficoltà per qualsiasi futuro governo. E anche per i partiti che dovessero prevalere nelle prossime elezioni e avrebbero il compito di formarlo: se il loro obiettivo è il bene comune, non dovrebbero chiedersi in quali condizioni sarebbe il paese che si troverebbero a guidare?

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