E Timmermans chiese a Letta: "Ma Draghi resta a Palazzo Chigi, vero?"
Iratxe García, leader del Pse, chiede lumi sull'alleanza col M5s. Al Nazareno prendono tempo: l'ingresso dei grillini tra i socialisti rimandato a fine anno, per vincolare Di Maio e Conte sulla scelta del successore di Mattarella
Il Recovery, il post-Merkel e i nuovi equilibri in Europa. Il vicepresidente della Commissione spera in una lunga permanenza del premier a Palazzo Chigi: "E' il leader migliore". L'incognita della corsa al Quirinale che s'incrocia coi destini del M5s a Bruxelles
Quando s’è sentito rivolgere la domanda, dicono che Enrico Letta abbia sorriso, prima di rispondere. “Ma Mario Draghi resterà a Palazzo Chigi, vero?”. Frans Timmermans l’ha lasciato rotolare così, l’interrogativo: con la naturalezza di chi, dopo molto argomentare su prospettive futuribili, pone la questione dirimente, da cui tutte le altre dipendono. Ed è stato in quel momento che il segretario del Pd, sotto lo sguardo interessato del vicepresidente della Commissione europea, ha ribadito con fermezza quel che ripete da alcuni giorni in modo più sfumato, e cioè che “per noi il sostegno al premier non si discute fino al 2023”. Il che è un attestato di fede nei confronti di Draghi, ma forse anche un messaggio in bottiglia: perché indicare “la fine di legislatura come l’orizzonte naturale” della permanenza del banchiere romano alla guida del governo, blindarlo a Palazzo Chigi, significa sottrarlo alla corsa a cui lui forse tiene di più: quella verso il Quirinale.
Solo che, agli occhi di Timmermans, socialista nordico ma col cuore latino, tifoso romanista e profondo conoscitore delle dinamiche europee, i destini dell’Unione valgono più di qualsiasi partita nazionale. E quando, sorridendo, gli scappa detto che “per noi in Olanda uno come Draghi è l’opzione più di sinistra che si possa accettare”, lo fa scherzando chissà fino a che punto, e forse in verità vivendo in corpore vili la difficoltà di incarnare i valori del Pse, di cui è stato leader nel 2018, in un paese che guarda per lo più a destra, lui che è nato in quella Maastricht dove s’è scritta una pagina fondamentale dell’integrazione europea e dove però, quando si parla d’integrazione europea, si percepisce come un fremito di diffidenza. E così, ospite a Roma al convegno dei S&D (ovvero il Pse) sul futuro dell’Europa, Timmermans, che da Ursula von der Leyen ha ricevuto la delega strategica al Green new deal, non ha perso l’occasione per sondare gli umori dei vertici del Pd, che tanta parte hanno nel rappresentare l’Italia a Bruxelles. E s’è confrontato con Paolo Gentiloni, suo collega in Commissione; e ha scambiato due parole anche con David Sassoli, presidente del Parlamento, ed Enzo Amendola, responsabile dei rapporti con l’Ue nel governo Draghi.
A tutti ha ribadito che l’occasione è propizia: con la diga dell’austerità rotta dal Recovery plan, con Angela Merkel sulla soglia dell’addio, e la Francia in marcia verso una convulsa campagna presidenziale, si dovranno trovare nuovi punti di riferimento. E certo, il pronosticato exploit dei Verdi tedeschi alle elezioni di autunno potrebbe indurre il Pse a ripensare il fronte delle alleanze in sede europea, magari allentando i legali coi liberal-democratici. “Ma questo rischierebbe di spaventare l’elettorato moderato in molti paesi”, è stata, in sintesi, l’obiezione di Timmermans. “E anche da questo punto di vista, Draghi può essere davvero il leader migliore”.
Dell’Europa in generale, certo, e in particolare di chi l’Europa vuole cambiarla nel senso di una maggiore coesione: sul debito comune, sulle politiche fiscali, sul superamento del principio dell’unanimità. Un lavoro non proprio banale. “E rispetto al quale Draghi è indubbiamente una garanzia per tutti”, ha spiegato Timmermans. Anche perché, se l’Italia riesce a sfruttare al meglio i fondi del Recovery di cui è maggiore beneficiaria, smentendo i trentennali pregiudizi - non del tutto infondati - sulla sua incapacità di pianificazione, allora molti degli alibi che legittimano le resistenze dei nordici sulle ipotesi di maggiore solidarietà verrebbero meno. “Ma lo avete sentito Olaf Scholz?”, ha detto ai suoi colleghi del Pd compiaciuto Gentiloni. Il ministro delle Finanze tedesco, pure lui intervenuto al convegno romano del Pse, aveva appena terminato il suo intervento, e l’ex premier italiano sorrideva: “Un candidato alla cancelleria tedesco che parla dell’urgenza di un debito comune europeo: fantastico”.
Poi, ovviamente, ognuno torna alle sue beghe quotidiane. Scholz a quelle di una campagna elettorale che vede la sua Spd in affanno; Timmermans e Gentiloni al lavoro in Commissione. E Letta, coi colleghi della sua segreteria, a interrogarsi sul da farsi in vista del gioco grande per la successione di Sergio Mattarella. E da quel punto di vista, assecondare gli auspici di chi, in Europa, spera in una permanenza di Draghi a Palazzo Chigi, per chi bazzica il Nazareno significherebbe anche scongiurare un rischio: e cioè che l’apoteosi al Colle dell’attuale premier faccia da preludio a un precipitoso scioglimento delle Camere. E invece di tempo il Pd ha bisogno anche per dare consistenza all’alleanza col M5s. Una faccenda tutta italiana, pure questa, che ha però, di nuovo, i suoi risvolti europei. E infatti ieri Iratxe García Pérez, la presidente spagnola del gruppo del Pse, ha chiesto lumi sulla possibilità di un ingresso del M5s nella pattuglia socialista, cosa che garantirebbe voti e poltrone in più in vista del rinnovo delle cariche apicali al Parlamento europeo a dicembre. “Aspettiamo di capire cosa vogliono fare”, s’è sentita rispondere da chi, avendo consuetudine con le riflessioni riservate di Letta, sa che tutto è rimandato a fine anno. Quando, cioè, una buona parola del Pd per agevolare l’arrivo del M5s, nel Pse imporrebbe a Di Maio e Conte di assecondare la strategia del Nazareno per l’elezione del nuovo capo dello stato. Lasciando Draghi dove sta. Tout se tient.