Il congresso del Partito socialista europeo tenutosi a Roma nel 2014. Nella foto LaPresse, Martin Schulz

Un'anomalia tutta italiana

Il Socialismo degli altri

Francesco Cundari

Anche i Cinque stelle vogliono entrare nel Pse. Storia di un’identità fluida: esibita in Europa, ma non in Italia

Il curioso spettacolo offerto dalla presenza di Luigi Di Maio a un’iniziativa del Pse, primo passo di un processo di avvicinamento che potrebbe concludersi con l’ingresso del Movimento 5 stelle nel partito che fu di Bettino Craxi, conferma una delle bizzarre anomalie del nostro paese. Tra tante altre stranezze, infatti, l’Italia è il paese in cui da più di trent’anni tutti vogliono essere socialisti europei, ma nessuno socialista italiano.

 

Come spesso accade, a ideare e officiare un così singolare convegno – pardon, “evento” – lunedì scorso, sono stati i vertici del Partito democratico, che l’hanno allestito proprio a casa loro, nell’ampia e ben aerata terrazza di Largo del Nazareno (la maggior parte degli interventi era comunque in collegamento), naturalmente d’intesa con il Pse e con il gruppo dei Socialisti e democratici al Parlamento europeo (la precisazione non sembri una pura pignoleria burocratica, giacché l’adesione al gruppo parlamentare è il vero obiettivo dei grillini, che di tutto il resto, dibattiti compresi, farebbero senz’altro e ben volentieri a meno). 

 

Il convegno, sobriamente intitolato “La nostra Europa, il nostro futuro”, si articolava in tre panel e oltre trenta interventi, con personalità di primo piano della sinistra europea come il primo ministro portoghese, il socialista António Costa (intervenuto con un videomessaggio), il vicepresidente della Commissione europea, ed ex candidato socialista alla presidenza, Frans Timmermans, o l’ex primo ministro greco Alexis Tsipras. E Di Maio.

 

Di quest’ultimo, prima che me lo dimentichi, vorrei ricordare soprattutto le parole sulle “transizioni gemelle”, quella digitale e quella ecologica, di cui “oggi si parla in tutti i fora europei”. Proprio così, “fora”, perché devono avergli spiegato che a sinistra potranno anche chiudere un occhio su diritti umani, decreti sicurezza e guerra alle ong, ma al latino ci tengono, e Di Maio (o chi gli scrive i discorsi) evidentemente è di quelli che per non sbagliare dicono non solo “curricula”, ma anche “referenda”, “quora” e “auditoria”.     

 

Significativa anche la posizione dei padroni di casa, riportata da Matteo Pucciarelli su Repubblica come “riflessione che in diversi fanno al Nazareno”. Questa: “Joe Biden in cento giorni ha sovvertito decenni di paradigma economico neoliberista, quindi basta timidezza, l’unico modo per vincere i populismi è non averne paura…”. Invitare Di Maio a un’iniziativa che si prefigge di “vincere i populismi” può sembrare troppo stravagante persino per i dirigenti del Pd, e si sarebbe tentati di pensare a una svista del giornalista. Questo però è un tweet apparso direttamente sul profilo di Enrico Letta: “Biden sfida le big della farmaceutica. Brevetti liberi per battere la pandemia. Civiltà. Come sembrano lontani muri, cloro e candeggina. Ricordiamoci sempre però chi stava per l’uno e chi per l’altro”. 

 

Ecco, sì. Ricordiamocelo. Perché i primi a stare dalla parte di Donald Trump – quello dei muri, del cloro e della candeggina – erano proprio Giuseppe Conte e i Cinque stelle, che ora Letta vorrebbe portare nel Partito del socialismo europeo. E anche il fatto che a spingere per accogliere i grillini nel Pse siano in particolare Enrico Letta e David Sassoli è a suo modo straniante, considerando che entrambi, fosse stato per loro, forse non ci sarebbero mai neanche entrati. Ma sto correndo troppo. È infatti una storia trentennale, quella del complicato rapporto della sinistra italiana, e in particolare della sinistra proveniente dal Pci, con il marchio socialista: al tempo stesso desiderato e respinto, rivendicato e nascosto. È una storia paradossale: dal socialismo in un solo paese al socialismo in un altro paese (qualunque altro, purché non il tuo). È una storia sostanzialmente priva di senso, in cui abbondano i colpi di scena e anche i colpi di testa. In compenso, rispetto alla storia dei decenni precedenti, scarseggiano i colpi di stato, e almeno questo, va detto, è un bel passo avanti.  

 

Nel suo recente libro dedicato alla caduta di Craxi, “30 aprile 1993” (Marsilio), Filippo Facci ha pubblicato la lettera che il 5 agosto 1992, in piena Mani Pulite (l’arresto di Mario Chiesa è del 17 febbraio), Achille Occhetto scrisse al segretario del Psi per pregarlo di dare il suo consenso all’ingresso del Pds nell’Internazionale socialista. E già questo, al tempo, era un fatto per niente scontato. Ricapitolando: quel Partito comunista nato nel 1921 da una scissione del Psi in nome della fedeltà all’Unione sovietica, settant’anni dopo, dinanzi alla fine del comunismo, aveva deciso di cambiare nome, ma pur di non ammettere la sconfitta, fare marcia indietro e tornare nel Partito socialista da cui proveniva, aveva teorizzato con Occhetto una bizzarra “uscita da sinistra dal comunismo” (che non significava niente e infatti non si concretizzerà in niente), assumendo pertanto il nome di Partito democratico della sinistra. Salvo pregare Craxi, appena due anni dopo, di favorirne gentilmente l’iscrizione all’Internazionale socialista. Ed è infatti con il suo beneplacito che a settembre il Pds entrerà nell’organizzazione che raccoglieva tutti i partiti socialisti del mondo, da dove due mesi dopo parteciperà alla costruzione del Partito del socialismo europeo. 
Quanto le resistenze del Pds al dialogo con Craxi fossero in tutto o in parte giustificate dai precedenti scontri tra i due partiti e dalle stesse mire annessionistiche del Psi, che non nascondeva di volere approfittare della situazione per mettersi a capo di una nuova “unità socialista” con gli ex comunisti (che pure avevano parecchi voti in più) in posizione subordinata, è questione aperta al dibattito. Sta di fatto che Craxi il suo beneplacito lo diede, e che i beneficiari non si mostrarono particolarmente riconoscenti. 

 

L’8 marzo dell’anno successivo, dunque tre mesi dopo il primo avviso di garanzia per il leader del Psi, il Pds si rivolgerà infatti direttamente al presidente dell’Internazionale socialista, Pierre Mauroy, per risolvere “rapidamente” la questione Craxi. Cioè per sbatterlo fuori. Ancora più significativo è che cinque anni dopo, nel momento in cui Massimo D’Alema decide di portare a compimento la svolta verso la sinistra democratica, (ri)cambiando nome al partito e rimuovendo dalle radici della Quercia, simbolo del Pds, il logo miniaturizzato del Pci, da un lato si insiste nel mantenere un nome assai simile al precedente (Democratici di sinistra), dall’altro, alle radici dell’albero, si piazza proprio la rosa del socialismo europeo, con la scritta Pse, e poi pure per esteso: Partito del socialismo europeo. Perpetuando così, anche nell’iconografia, quella strana condizione di partito del socialismo europeo, ma non italiano.

 

Pensando al possibile ingresso del Movimento 5 stelle nel partito che fu di Craxi, l’ironia della storia è però duplice, anzi triplice, e per goderne appieno occorre procedere lentamente, con attenzione ai mille tesori nascosti che un’accorta stratigrafia permette di disvelare. Perché se è vero che l’atto costitutivo del Pse fu firmato nel 1992, per l’Italia, dai tre segretari dei partiti aderenti alla Confederazione dei Partiti socialisti della Comunità europea (dunque Craxi, Occhetto e il socialdemocratico Carlo Vizzini), è pur vero che con la nascita del Partito democratico, nel 2007, e dunque con la fusione tra i Ds (aderenti al Pse) e la Margherita (aderente al Partito democratico europeo), la questione di dove dovesse collocarsi a Strasburgo la nuova formazione era divenuta assai ingarbugliata. Tanto che per sbrogliarla ci vollero ben sette anni.

 

E indovinate chi fu a risolverla, il primo marzo 2014, portando (o ri-portando, secondo i punti di vista) la principale forza del centrosinistra italiano nel partito del socialismo europeo? Avete indovinato: Matteo Renzi. Vale a dire l’unico leader politico che ai Cinque stelle è forse persino più inviso di Craxi. E il bello è che poco dopo avere conseguito, e ampiamente rivendicato, questo risultato storico, per la sinistra italiana, europea e mondiale (ma sì, abbondiamo), ne è uscito lui, con la creazione di Italia viva, che nel Parlamento europeo aderisce al gruppo liberale di Renew Europe. Anche più buffo, andando ancora un po’ indietro nel tempo, il dibattito che precedette la nascita dello stesso Partito democratico, in particolare all’interno della componente diessina. Dove proprio quelle correnti che maggiormente avevano lottato, nel passaggio dal Pci al Pds, all’inizio degli anni novanta, per non confondersi in alcun modo con il Psi, ora facevano le barricate e si battevano il petto nei comizi in nome della loro irrinunciabile identità socialista, che l’abbraccio con la Margherita metteva irrimediabilmente in discussione. E lo facevano dall’interno di un partito che socialista, come si è visto, non aveva voluto chiamarsi mai, e che di proposito aveva deciso di assumere i nomi più stravaganti, pur di evitare quello. Con l’eccezione, s’intende, della piccola corrente migliorista di Giorgio Napolitano, che proprio per il sospetto d’intelligenza con il nemico socialista era stata in quegli anni bersaglio di ogni genere di accusa e insinuazione.

 

Se questo piccolo riepilogo delle peripezie dei padroni di casa (italiani) del Pse vi ha fatto girare un po’ la testa, fate una pausa e bevete un bicchier d’acqua, perché bisogna anche dire che i nuovi invitati, fin qui, non sono stati da meno. A dimostrazione del fatto – per essere obiettivi – che almeno una cosa in comune ce l’hanno. Appena arrivato al Parlamento europeo, nel 2014, dopo avere avviato trattative con i Verdi prima e poi con l’Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa (Alde), il Movimento 5 stelle aveva scelto infatti il gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta (già Europa della libertà e della democrazia, aggiungere “diretta” costava poco anche graficamente). Gruppo capitanato dal partito più antieuropeista del mondo, l’Ukip di Nigel Farage, padre della Brexit. In seguito, dopo un secondo e ugualmente sfortunato tentativo di passare con gli europeisti dell’Alde (i quali, essendo europeisti sul serio, li avevano gentilmente pregati di restarsene con Farage e gli amici suoi), ancor prima del definitivo sfaldamento dell’Efdd, che nel 2019 li avrebbe lasciati senza gruppo (e relativi benefit), i grillini avevano tentato di intrupparsi praticamente in tutti i partiti presenti a Strasburgo, e perfino di costruire l’En Marche europea insieme con Emmanuel Macron. 

 

A questo proposito, il tentativo di avance più spinta è senza dubbio la nota degli eurodeputati del Movimento 5 stelle dell’aprile 2018: “Sin dal nostro ingresso al Parlamento europeo abbiamo sempre lavorato in modo costruttivo con tutti: allo stesso modo siamo pronti a collaborare con il presidente Macron per fornire il nostro contributo a un’agenda veramente europea, in grado di rilanciare un’integrazione fiaccata da anni di egoismi e politiche fallimentari”. Nemmeno un anno dopo, febbraio 2019, Di Maio incontrava a Montargis, cento chilometri a sud di Parigi, alcuni esponenti del movimento dei gilet gialli (i più estremisti, per la precisione) che avevano appena messo a ferro e fuoco la capitale, con cui sperava di allearsi alle successive europee. “Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi. Ripeto. Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi”, scriveva su Facebook il capo politico dei Cinque stelle, in stile Radio Londra, celebrando il vertice, di cui è ancora reperibile su internet una foto che lo immortala insieme con Alessandro Di Battista, Fabio Massimo Castaldo e altri impavidi eurodeputati grillini, mentre abbracciano i potenziali alleati (durerà pochissimo, perché li scaricheranno pure loro a breve distanza dallo storico incontro). Tra i francesi, spicca in particolare Christophe Chalençon, che nelle settimane precedenti aveva evocato apertamente un colpo di stato militare per deporre Macron (ragion per cui il 22 aprile scorso è stato condannato a sei mesi di carcere con la condizionale per “istigazione ad armarsi contro l’autorità dello Stato”). Macron non la prenderà benissimo. Anche perché a quel tempo Di Maio, incredibilmente, è vicepresidente del Consiglio (il fatto che ancora oggi sia ministro degli Esteri non rende la notizia meno incredibile, anzi).

 

E va bene, so anch’io che il mondo è cambiato, che le ideologie sono finite, che siamo nell’epoca della società liquida. E può ben darsi che al giorno d’oggi l’appoggio a un aspirante golpista di estrema destra possa essere considerato un ponte come un altro verso il Partito del socialismo europeo. Del resto, se si può passare dall’alleanza con Farage alla maggioranza che sostiene il governo Draghi, e proprio in nome dell’europeismo, davvero tutto è possibile. Ma per quanto possiamo essere smaliziati, fa un certo effetto vedere Di Maio prendere la parola in un’iniziativa pubblica sotto le insegne del Partito del socialismo europeo. Anche perché, a parte “del”, non c’è una sola parola di quell’insegna che non rappresenti tutto ciò che i grillini hanno più ferocemente combattuto

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