Ci provano sempre
L'ultimo Papa straniero
Da due anni il Pd si getta ai piedi di Conte per colmare il fossato tra la chiesa democratica e l’eresia populista
Il sospetto che Enrico Letta non fosse un cavaliere jedi, per dire la verità, lo avevo già da qualche tempo. Ma la certezza me l’ha data lui martedì scorso, a “Cartabianca”, quando ha difeso con queste parole il suo sfortunato tentativo di alleanza con il Movimento 5 stelle alle prossime amministrative, e in particolare a Roma, dopo tanti solenni incontri con Giuseppe Conte: “Io credo che rispetto a queste cose conti molto il tentare, il provare, il capire là dove è possibile e là dove non è possibile”. Il maestro Yoda avrebbe replicato stizzito: “No. Provare no. Fare o non fare. Non c’è provare”. È anche vero, però, che il maestro Yoda non aveva mai dovuto vedersela con i dirigenti del Pd. E quelli ci provano sempre.
C’è però qualcosa di più, qualcosa che non riguarda solo Letta, nell’ingenuità, per non dire nella voluttà, con cui il Partito democratico da quasi due anni continua a gettarsi ai piedi di Conte, trasformando l’Avvocato del popolo nel “punto di riferimento di tutti i progressisti”, nel “nuovo Prodi”, nel Pontefice massimo chiamato a colmare per sempre il fossato tra la chiesa democratica e l’eresia populista. L’ultimo – l’ennesimo – Papa straniero.
Questa del Papa straniero è infatti una maledizione antica, molto più antica della definizione, che risale comunque a oltre un decennio fa, e si deve a Ezio Mauro. All’indomani delle elezioni regionali del 2010, infatti, l’allora direttore di Repubblica scrive sul suo giornale, il 31 marzo: “Il Paese è contendibile, ma questo Pd non è oggi in grado di contenderlo. Ecco il problema. Bersani, che è arrivato da poco alla guida del partito, può contare le sette regioni conquistate contro le sei del Polo, per concludere che il Pd è tornato in gara. Ma non si può pensare di governare un Paese se si è esclusi dal Nord, se si precipita al 28 per cento nel Nordest e se si pensa di parlare ancora al Nordovest dai gloriosi cancelli di Mirafiori…”. E così conclude: “C’è parecchio lavoro da fare, nell’interesse del Paese, per evitare che l’avventura berlusconiana si compia al Quirinale. Non ultimo, cercare un leader che possa sfidare il Cavaliere e vincere, come avvenne con Prodi: e cercarlo in libertà, anche fuori dai percorsi obbligati di età, di appartenenza e di nomenklatura. Forse, anche a sinistra è arrivata l’ora di un Papa straniero”.
L’appello avrebbe suscitato polemiche, diffidenze, sospetti e malumori a non finire. Ma in verità di Papi stranieri, a quel tempo, la sinistra ne aveva già eletti, cercati e invocati parecchi. Per una ragione, per dir così, storico-strutturale: il fallimento dell’unificazione socialista, morta di fatto prima ancora di nascere, proprio quando la caduta del muro di Berlino avrebbe reso possibile l’uscita del Partito comunista dalla gabbia della conventio ad excludendum, vale a dire dall’impossibilità di andare al governo per manifesta incompatibilità con il sistema di alleanze politiche e militari del paese. Ma l’improvvisa apertura di quella possibilità arrivava al termine di uno scontro fratricida – reso anche psicologicamente insuperabile, probabilmente, dalla morte di Enrico Berlinguer, nella fase più aspra del conflitto – con il Psi di Bettino Craxi, che sarebbe stato altrimenti il candidato naturale, il Papa nazionale della sinistra riunificata.
“Eravamo come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di ‘unità socialista’, in sostanza un progetto annessionistico”, dirà Massimo D’Alema, nel 1995, ai suoi biografi Giovanni Fasanella e Daniele Martini (“D’Alema”, Longanesi). “Come uscire da quel canyon? Questo era il nostro problema strategico: come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana, che avrebbe segnato la disfatta della sinistra?”. E ancora: “Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un paese europeo occidentale. Quindi rappresentava lui la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi”.
Con il passare del tempo la tribù dei postcomunisti si farà meno schizzinosa, specialmente negli ultimi anni. Ma il problema del canyon rimarrà a lungo intatto. Come un’antica maledizione. E non varrà a spezzarla il tentativo di aggiramento con cui proprio D’Alema riuscirà infine a varcare la soglia di Palazzo Chigi, primo e tutt’ora unico ex comunista a riuscirci, nel 1998, al termine della crisi del primo governo Prodi, tra mille polemiche, accuse e sospetti. Dopo l’uscita di Rifondazione comunista dalla maggioranza e l’ingresso di una nuova formazione nata in parlamento (l’Udr), oggi diremmo di “responsabili”. In altre parole: senza passare dal voto. Perché alla presidenza del Consiglio, in seguito a una limpida vittoria elettorale, nessun ex comunista arriverà mai.
Il passaggio resterà inviolato. Forse anche perché difeso dallo spirito di quel capoindiano della rivale tribù socialista, Craxi, tanto aspramente combattuto in vita, nonostante i ripetuti atti di contrizione cui ciascun aspirante leader pidiessino, diessino e piddino degli anni successivi si sottoporrà, con il senno (e le convenienze) del poi. Spesso, per evitare di essere ricacciati indietro, sotto una scarica di tuoni, fulmini e saette, i postcomunisti dovranno fermarsi diverse centinaia di metri più in qua, senza nemmeno provarci sul serio, a candidarsi per Palazzo Chigi.
Il primo a esserne tentato sarà naturalmente Achille Occhetto, il padre della svolta. Il leader che ha convinto i comunisti ad abbandonare il vecchio nome, dando vita al Partito democratico della sinistra, per scommettere sul maggioritario e sulla democrazia dell’alternanza. Nella logica del nuovo sistema, dovrebbe essere il candidato naturale. Ma alla fine anche lui, nella campagna elettorale per le elezioni del 27 marzo 1994, ripiegherà su formule più rassicuranti, spiegando che, qualora la coalizione progressista ne fosse uscita vincitrice, a Palazzo Chigi avrebbe indicato Carlo Azeglio Ciampi. Vale a dire un ex governatore di Bankitalia, nonché presidente del Consiglio uscente, il cui governo proprio Occhetto aveva messo in crisi appena nato, ritirando i ministri il giorno dopo il giuramento, in polemica con la decisione del parlamento che quel giorno aveva negato alcune autorizzazioni a procedere contro – indovinate un po’? Massì, è ovvio – Bettino Craxi.
La vittoria elettorale di Silvio Berlusconi è tanto clamorosa quanto effimera. La sua maggioranza si mostra presto profondamente divisa. Mentre l’opposizione, guidata dal nuovo segretario del Pds, D’Alema, si rivela più combattiva del previsto. In particolare sulla riforma delle pensioni proposta dal ministro del Tesoro, Lamberto Dini, su cui partiti di sinistra e sindacati organizzano una mobilitazione imponente, costringendo l’esecutivo a ritirarla.
E così si arriva, tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995, allo storico “ribaltone”, con l’uscita della Lega dalla maggioranza e la necessità, per le opposizioni, di formare un nuovo governo che eviti un immediato ritorno alle urne. E che certo non può essere guidato, neanche stavolta, da un leader della sinistra. Nasce così il governo Dini. Proprio lui. Non per niente, il giorno della fiducia, il quotidiano comunista il Manifesto titolerà: “Baciare il rospo?”.
Lo baceranno, eccome. Non solo, infatti, sarà il suo governo a fare la riforma delle pensioni, ovviamente in accordo con i sindacati, e a portare il paese al voto nel 1996, ma a quelle elezioni l’ex nemico pubblico numero uno si rivelerà alleato decisivo, con il 4 per cento del suo neonato partitino centrista, della vittoriosa coalizione di centrosinistra. Risultato che gli consentirà un’intera legislatura da ministro degli Esteri (sotto tre presidenti del Consiglio e quattro governi) e una da autorevole esponente della Margherita, con relativi incarichi parlamentari. Per poi tornarsene nel 2008 in quel centrodestra da cui aveva cominciato la sua carriera, e che lo rieleggerà in Senato nelle file del Popolo della libertà.
Il suo è dunque un pontificato breve – a Palazzo Chigi resta un anno e mezzo – ma straniero lo è di sicuro. Sta di fatto che nemmeno alle successive elezioni del 1996 il Pds, pur essendo di gran lunga il partito più forte della coalizione, si azzarda a proporre il suo leader per Palazzo Chigi, preferendo incoronare il cattolico-democratico Romano Prodi. Uno più papale di lui, obiettivamente, era difficile trovarlo. Straniero o meno, dipende dai punti di vista: certo rispetto alla tradizione postcomunista lo era eccome – e forse anche rispetto a quella stessa retorica del rinnovamento e della società civile di cui pure diverrà simbolo – già ministro dell’Industria nel quarto governo Andreotti (1978), e due volte presidente dell’Iri (dal 1982 al 1989 e dal 1993 al 1994).
Ad ogni modo, è anche dalla tensione irrisolta tra il leader del partito più forte (D’Alema) e il leader della coalizione (Prodi) che origina gran parte della conflittualità interna destinata a dilaniare il centrosinistra nei decenni a venire. Tra il capo cioè di un partito che non ha ancora la legittimazione necessaria per aspirare direttamente a Palazzo Chigi (e farà di tutto per conquistarsela) e un capo di governo sprovvisto di un partito che lo sostenga (e farà di tutto per conquistarselo). Ciascuno a suo modo, due Papi dimidiati, ugualmente stranieri in patria.
Il Partito democratico nasce anche per risolvere questo problema, unificando le due tradizioni politiche superstiti della Prima Repubblica e le rispettive eredità, quella che dal tracollo del vecchio sistema è riuscita a mettere in salvo i voti (i postcomunisti) e quella rimasta con la legittimità di governo (i postdemocristiani). Ponendo così anche un termine, almeno nelle aspirazioni originarie, al dualismo tra partito e coalizione (e rispettivi leader).
Ma il peso delle tradizioni può essere schiacciante, anche quando tutto intorno il mondo sembra irriconoscibile. Da tempo, del resto, gli aspiranti Papi del centrosinistra provenienti dal Pci, per stare più sicuri, facevano il percorso inverso di certi calciatori, cercando di farsi naturalizzare stranieri, dichiarando ad esempio di non essere mai stati comunisti, come farà Walter Veltroni. Ed è forse anche per questa antica ossessione che il Pd diviene per statuto, sin dalla nascita, l’unico partito che lasci scegliere il proprio leader ai casuali avventori dei gazebo. Strana chiesa in cui per eleggere il Papa non si chiamano i cardinali, e nemmeno i parroci, ma semplicemente i passanti.
Curiosamente, da allora in poi, a ogni nuova elezione sono diventati stranieri quasi tutti i Papi precedenti, preferendo l’esilio alla convivenza con i nuovi venuti: Francesco Rutelli all’indomani dell’elezione di Bersani, Bersani durante la segreteria di Matteo Renzi, Renzi dopo la vittoria di Nicola Zingaretti. E forse è anche per questo che con il tempo, anche senza passare dalle primarie, i democratici hanno finito per andarseli a cercare sempre più lontano: più che tra gli stranieri, tra gli estranei. Fino all’ultima clamorosa carambola che tra 2019 e 2020 ha visto incoronare leader del centrosinistra, non si capisce neanche bene come, e per decisione di chi, un signore che fino a pochi mesi prima guidava un governo di destra, si dichiarava orgogliosamente sovranista e populista, chiudeva i porti ai soccorritori e sottoscriveva felice i decreti sicurezza di Matteo Salvini. Giuseppe Conte, insomma, il più straniero di tutti i Papi.
E dunque, se si esclude la candidatura di Veltroni alle elezioni del 2008 (in quanto naturalizzato anticomunista), quando nel 2010 Mauro lancia la provocazione del “Papa straniero”, a dire la verità, a sinistra è appena cominciato il primissimo tentativo di eleggere un Papa nazionale, dopo tanto peregrinare, con la vittoria di Pier Luigi Bersani alle primarie del Pd di qualche mese prima. Ma agli ultimi eredi dell’antica nazione indiana il passaggio non riuscirà neanche questa volta, infrangendosi sulla “non vittoria” elettorale del 2013, che costringerà Bersani a cedere la strada per Palazzo Chigi al suo vice di allora, che poi sarebbe sempre il segretario attuale: Letta.
E chissà dunque se ci fosse solo il gusto dell’autocitazione, nell’incipit dell’articolo con cui due mesi fa Ezio Mauro ne ha commentato l’insediamento, il 14 marzo 2021: “Sembrava quasi un Papa straniero, o almeno un figliol prodigo, Enrico Letta mentre pronunciava i nuovi comandamenti del Pd nell’assemblea che lo ha eletto quasi all’unanimità segretario del partito”. Visto il seguito della vicenda, e anche il prologo, viene quasi il sospetto che non fosse propriamente un augurio.