(Ansa)

Governare il futuro. L'esempio di Marco Pannella (1930-2016)

Marco Pannella

Ritratto politico e umano del leader radicale, a cinque anni dalla morte. Testi, discorsi e interventi

 

Il grande affabulatore

Era il 19 maggio 2016: sono già passati cinque anni dalla morte di Marco Pannella, il gran politico (nonostante le apparenze) che introdusse temi e conflitti nuovi nella vita politica e sociale italiana dal ’68 in poi: dalle campagne per i diritti, in Italia ma anche all’estero, al carcere, alla giustizia, alle droghe. E che cambiò l’idea stessa della battaglia politica: con l’eloquio torrenziale e il silenzio dei digiuni, la presenza attivissima in Parlamento e il ricorso ai referendum. Ricordiamo in queste pagine il leader radicale con alcuni testi, discorsi e interventi tra i suoi più significativi. Ci sembra che se ne ricavi un bel ritratto del politico e dell’uomo Pannella, utile anche per i nostri tempi, per l’Italia di oggi e per indirizzare quella di domani. 

 

   

 

Ai “Gruppi spontanei di impegno politico-culturale 
per la nuova sinistra”, 1 agosto 1968

 

In questa lettera Marco Pannella annuncia uno sciopero della fame a seguito dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche. Lo sciopero della fame durò circa 15 giorni. I radicali organizzarono manifestazioni a Sofia, dove partecipò anche Pannella, a Mosca e Berlino Est, nel corso delle quali vennero arrestati ed espulsi. 

Cari amici, abbiamo deciso con alcuni compagni romani di iniziare uno sciopero della fame a oltranza per richiedere lo sgombero totale delle truppe sovietiche dalla Cecoslovacchia o comunque per appoggiare nelle trattative in corso i cecoslovacchi. Intendiamo così anche sollecitare il passaggio all’azione del Partito comunista italiano, perché le sue positive dichiarazioni non divengano un alibi per non far nulla, o per limitarsi ad azioni di vertice, incontrollabili e a noi stessi estranee, come a tutti i comunisti di base e alle masse.

 Forse, quando riceverete questo espresso, tutto sarà già superato. Nel caso contrario, riteniamo che i “Gruppi spontanei” possano assicurare un contributo serio per democratizzare e concretare il sostegno italiano alla lotta del popolo cecoslovacco. 
Ci auguriamo che possiate anche voi far propria questa nuova iniziativa. Non crediate che sia “inerme” e non-politica. Anche sul piano della efficacia, se le circostanze (come non speriamo) dovessero richiederlo, se in numerose città d’Italia, contemporaneamente, fosse in corso uno sciopero della fame, onestamente e rigorosamente condotto, l’eco giornalistica e politica non potrebbe non essere rilevante, per lo meno in rapporto alle energie che vi avremo impegnato.

 Inoltre questa iniziativa non distoglierebbe necessariamente dal lavoro dei Gruppi alcuna energia. Vi preghiamo di farci conoscere le vostre opinioni in proposito. Se doveste decidere di fare anche voi il digiuno, vi invitiamo a mettervi subito in contatto con noi telefonicamente o di informarci telegraficamente o di informarci telegraficamente.

 

 

Prefazione al libro “Underground a pugno chiuso!”
di Andrea Valcarenghi. Arcana editrice. Luglio 1973

Nel periodo in cui si intensificano le campagne radicali per il riconoscimento del diritto al divorzio, all’aborto, all’obiezione di coscienza, nella prefazione al libro di Valcarenghi, Pannella denuncia i limiti storici della cultura rivoluzionaria, con la celebre ri-definizione di fascismo e antifascismo. “Finalmente il testo di un manifesto politico del radicalismo”, scrive Pier Paolo Pasolini nel novembre del ’73. 

 

Carissimo Andrea, mi chiedi una “prefazione” a questo tuo libro. L’ho letto e riletto per settimane, compiendo i gesti della preparazione a una critica, a un giudizio, a una presentazione, a questa apparente ed ennesima mia complicità o connivenza con qualcuno di voi. Annoto allora quel che mi par buono, ed è molto; quello da cui dissento, che non è poco; ricorro alle categorie di bello e di brutto e trovo bei racconti, davvero, come belle sono tante pagine, frasi, annotazioni cui dà ogni tanto risalto per contrasto il “brutto” della proclamazione ideologika-klassista, residuo obbligato del borghesaccio che eri e che come tutti noi rischi di tornare a essere, preoccupazione tua e di tanti altri anziché occupazione piena e creativa; proclamazione, insomma, in luogo di azione di classe.

 

Cerco di comprendere perché mi hai chiesto questo servizio, per meglio adempierlo, umilmente e se possibile efficacemente, da compagno che accetta e vuole accrescere i labili o inadeguati motivi comuni di fiducia e di solidarietà. Non ci riesco.
Arrivo a sospettarti dei calcoli più imbecilli e frustri. Smadonno. Penso a Umberto Eco, lettore-prefatore della nostra epoca scritta; ma no, piuttosto a Franco Fortini, Luigi Pintor, Adriano Sofri, cui dovevi rivolgerti, che dovevi convincere e che avrebbero saputo cogliere l’occasione per dirci un po’ meglio di quanto non sappiamo quel che siete, quel che siamo, e per rispondere nello stesso tempo alle loro diverse e così significative esigenze di moralità politica. Io queste cose non le so fare. Con all’orizzonte i miei cinquanta anni e un quarto pieno di secolo, dietro le spalle, di impegno, di lotte (e di felicità: qui vi fotto tutti!) non ho scritto un solo libro, un solo saggio, non ho “pubblicato” nulla – semplicemente perché non ho potuto, perché non ne sono capace. Scorro le pagine che ti hanno dato Carlo Silvestro e Michele Straniero, così importanti, adeguate, ben costruite, magnificamente psico-pirotecniche. Spostale e saranno un’ottima prefazione.

 

Cosa vuoi da me? Pensi davvero che il mio nome sia divenuto merce buona per il mercato di compra-legge, o di chi vuoi o vorresti chiamare alla lettura con questo libro? No; ne ho la prova, so che sai che non è così. Tu non leggi i miei “scritti”, le migliaia di volantini ciclostilati, di comunicati-stampa, di foglietti del Partito Radicale, che sono le sole cose ch’io abbia mai prodotto, in genere scrivendole in mezz’ora, per urgenze militanti, nella bolgia di via XXIV Maggio ieri, in quella di via di Torre Argentina 18 oggi.
Tu sei un rivoluzionario. Io amo invece gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica.

Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se “rivoluzionario”. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuol essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri e alle ideologie. Credo sopra ad ogni altra cosa al dialogo, e non solo a quello “spirituale”: alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e tanto più “privati” mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m’ingegno che siano riconosciuti. Ma non è questa l’occasione buona per spiegare ai tuoi lettori cosa sia il Partito Radicale; andiamo avanti.

 

Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo. Non credo ai “viaggi” e sarà anche perché i “vecchi” ci assicurano sempre che “formano” (a loro immagine) i “giovani”, come l’esercito e la donna-scuola. Non credo al fucile: ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il “nemico” per pensare di eliminarlo. E voi di Re Nudo dite: “Tutto il potere al popolo”, “erba e fucile”. Non mi va. Lo sai, non sono d’accordo.
Brucare, o fumare erba non m’interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla meno cara, sul mercato, in famiglia e società, in carcere.

Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna!), lo è davvero. Ma fare dell’erba un segno positivo e definitivo di raccordo e speranza comuni mi par poco e sbagliato. Né basta, penso, aggiungervi come puntello il vostro “fucile”.

La violenza dell’oppresso, certo, mi pare morale; la controviolenza “rivoluzionaria”, l’odio (“maschio” o sartrianamente torbido che sia) dello sfruttato sono profondamente naturali, o tali, almeno, m’appaiono. Ma di morale non m’occupo, se non per difendere la concreta moralità di ciascuno, o il suo diritto ad affermarsi finché non si traduca in violenza contro altri; e quanto alla natura penso che compito della persona, dell’umano, sia non tanto quello di contemplarla o di descriverla quanto di trasformarla secondo le proprie speranze. Insomma, quel che vive, quel che è nuovo è sempre, in qualche misura, innaturale.

 

Perciò non m’interessa molto che la vostra violenza rivoluzionaria, il vostro fucile, siano probabilmente morali e naturali, mentre mi riguarda profondamente il fatto che siano armi suicide per chi speri ragionevolmente di poter edificare una società (un po’ più) libertaria, di prefigurarla rivoluzionando se stesso, i propri meccanismi, il proprio ambiente e senza usar mezzi, metodi idee che rafforzano le ragioni stesse dell’avversario, la validità delle sue proposte politiche, per il mero piacere di abbatterlo, distruggerlo o possederlo nella sua fisicità.
La violenza è il campo privilegiato sul quale ogni minoranza al potere tenta di spostare la lotta degli sfruttati e della gente; ed è l’unico campo in cui può ragionevolmente sperare d’essere a lungo vincente. Alla lunga ogni fucile è nero, come ogni esercito e ogni altra istituzionalizzazione della violenza, contro chiunque la si eserciti, o si dichiari di volerla usare.

Se la lotta rivoluzionaria presupponesse davvero necessariamente: morte di compagni, il loro “sacrificio” e questa esemplarità, la “presa” del potere; e, a potere preso, o nelle more della conquista, il ripetere contro i nemici i gesti per i quali io sono loro nemico, gesti di violenza, di tortura, di discriminazione, di disprezzo, consideratemi pure un controrivoluzionario, o un piccolo borghese da buttar via alla prima occasione.
Non sono, infatti, d’accordo. L’etica del sacrificio, della lotta eroica, della catarsi violenta mi ha semplicemente rotto le balle; come al “buon padre di famiglia”, al compagno chiedo una cosa prima d’ogni altra: di vivere e d’essere felice. Penso, personalmente, che avendo un certo bagaglio di speranze, di idee e di chiarezza non solo questo sia possibile, ma che non vi sia altro modo per creare e vivere davvero felicità.

 

Ma esser “compagno” (come esser padre) non è scritto nel destino né prescritto dal medico. Se le vie divergono, lo constateremo e cercheremo di comprendere meglio. Ma basta con questa sinistra grande solo nei funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste, nelle celebrazioni: tutta roba, anche questa, nera: basta con questa “rivoluzione” clausevitziana, con le sue tattiche e strategie, avanguardie e retroguardie, guerre di popolo e guerre contro il popolo, di violenza purificatrice e necessaria, di necessarie medaglie d’oro; la rivoluzione fucilocentrica o fucilocratica, o anche solo pugnocentrica o pugnocratica non è altro che il sistema che si reincarna e prosegue. Non solo il “Re” ma anche questa “Rivoluzione” vestita di potere e di violenza è nuda, Andrea. Tollera ch’io lo scriva nel tuo libro, se questa lettera sarà accolta come prefazione.

E tollera molto altro…
Siete, sei “antifascista”, antifascista della linea Parri-Sofri, lungo la quale si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della nostra politica. Noi non lo siamo.
Quando vedo nell’ultimo numero di Re Nudo, ultima pagina, il “recupero” di un’Unità del 1943 con cui si invita ad ammazzare il fascista, dovunque capiti e lo si possa pescare, perché “bisogna estirpare le radici del male”, ho voglia di darti dell’imbecille. Poi penso che tutti sono d’accordo con te, tranne noi radicali, e sto zitto, se non mi costringi, come ora, a parlare e a scrivere. Capisco le vostre ragioni: anche voi dovete dimostrare (a voi stessi?) che il Pci è oggi degenerato; che ieri era meglio d’oggi; che quando aveva armi e potere rivoluzionario era più maschio, più coraggioso, più duro e puro. Invece (come Partito, qui non parliamo dei “comunisti”) era semmai, peggio, perfino molto peggio d’oggi.

Comunque non era migliore sol perché teorizzava qua e là l’assassinio politico e popolare come atto di igiene e di garanzia contro “il male”. Per chi l’ha ammazzato, certamente, Trotzky era peggio e più schifoso d’un fascista, e ancor più profonda radice del male. Ma, per voi che riesumate, ad onta dell’Unità di oggi, quella di ieri, credendo di legarvi così alle tradizioni di classe, popolari, operaie, non c’era davvero nulla di meglio da recuperare che questi concetti controriformistici, barbari, totalitari, contro le “radici del male”?
Tu che hai “compreso”, ti sei sentito “compagno” di Notarnicola (e hai fatto bene); che hai vissuto almeno quanto me fra sottoproletari, paria, emarginati, come puoi non comprendere il fascismo di questo antifascismo? Come puoi, ancora, sopportare l’inadeguatezza dell’ingiuria, dell’insulto, del disprezzo, del manicheismo dozzinale, classista, non laico, fariseo, nello scontro di classe che cerchiamo di vivere e di sostenere, nel viver diverso e nuovo che presuppone e che genera? Perché, anche tu, fra fucile, antifascismo e poteri-al-popolo-a-pugno-chiuso, continui a vivere di quella vecchia nuova-sinistra che così puntualmente e efficacemente denunci nel libro?

 

Come noi radicali, voi renudisti sostenete che non esistono dei “perversi”, ma dei “diversi”. Nelle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche o negli uffici perfino i torturatori sono anch’essi, in primo luogo, e generalmente delle vittime. Tranne che per certi psicanalisti, uccidere il padre non è la soluzione, non aiuta a superare l’istituzione, la famiglia; o non basta e non è comunque necessario.
Sosteniamo, insieme, che non esistono nelle carceri, negli ospedali, nei manicomi, nelle strade, sui marciapiedi, nei tuguri, nelle bidonville, dei “peggiori”, ma anche lì, dei “diversi” malgrado la miseria (che è terribile proprio perché degrada, muta, fa degenerare: e se no, perché la combatteremmo tanto?), malgrado il lavoro che aliena (che rende “pazzi”), malgrado che lo sfruttamento classista sia “secolare”, quindi incida sull’ereditarietà. Sogniamo – e v’è rigore e responsabilità nei nostri sogni – una società senza violenza e aggressività o in cui, almeno, deperiscano anziché ingigantirsi e esservi prodotte. Sosteniamo che è morale quel che tale appare a ciascuno. Lottiamo contro una “giustizia” istituzionale (e “popolare”) che ovunque scambia diversità per perversione, dissenso per peccato.

 

Come possiamo, allora, recuperare proprio in politica, nella vita di ogni giorno nella città, il concetto di “male”, di “demonio”, di “perversione”? Quel che voi chiamate “fascista” si chiama “obiettore di coscienza”, “divorzista”, “abortista”, “corruttore radicale”, “depravato”, per altri.
La “stella gialla” dei ghetti è un emblema terribile, ma non meno per chi l’impone che per chi l’indossa.
Ma chi sono, poi, questi “fascisti” contro i quali da vent’anni ci costituite (non dirmi che non c’entri, che sei troppo giovane: qui parliamo di generazioni politiche, le uniche che contino), in unione sacra, in tetro e imbelle esercito della salvezza?
Mussolini, Vittorio Emanuele III, Farinacci, i potenti che seppero imporre un regime vincente, senza più vera opposizione, qual era il fascismo in Italia, furono spazzati via dalla guerra; senza la quale essi sarebbero ancora al potere come i Franco e i Salazar. Furono abbattuti solo perché ritennero che, entrando nel conflitto, avrebbero guadagnato “con poche migliaia di morti” il diritto di sedersi al tavolo della pace dalla parte dei vincitori.

Il vero fascismo fu il loro, non quello della Rsi; nato morto, senza potere autonomo. Dal 1948, in Italia, tutte le forze politiche si sono mobilitare per “ricostruire lo Stato”: questa “ricostruzione” fu la bandiera degli anni Cinquanta.
In questa ricostruzione che continua ininterrotta, in questa oppressione che si è riaffermata, che ha ritrovato la sua continuità e aumentato la sua forza, dove sono mai i “fascisti” se non al potere e al governo? Sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Colombo, i Pastore, i Gronchi, i Segni e – perché no? – i Tanassi, i Cariglia, e magari i Saragat, i La Malfa. Contro la politica di costoro, lo capisco, si può e si deve essere “antifascisti”, cioè “antidemocristiani”. Noi radicali lo siamo. Lo sono anch’io, il più laicamente e spassionatamente, cioè il più chiaramente e duramente, possibile.

 

Poiché non siamo fatti di sola razionalità, verso e contro costoro è giusto che anche la nostra emotività venga mobilitata, secondata. Quanto di sdegno, d’istinto, possiamo avere non può che essere pienamente indirizzato contro i successori reali, storici, del fascismo dello Stato. Questo, e non l’altro, è il concreto fronte politico sul quale oggi si lotta.
Invece, sotto la bandiera antifascista, si prosegue una tragica operazione di digressione. Come se, negli anni in cui il fascismo si affermava, si fossero mobilitate le energie democratiche e popolari innanzitutto contro i Dumini e gli altri assassini materiali di Matteotti, dei Rosselli, degli antifascisti; o se pensassimo davvero che fu “fascismo” quello dei ragazzi ventenni che casualmente e “stupidamente” indirizzarono la loro generosità e la loro sete di sacrificio verso la Repubblica Sociale, divenendo poi “oggettivamente” sicari dei tedeschi e dei nazisti, assassini e torturatori. Scatenando, rilanciando la caccia contro gli Almirante e gli altri ausiliari di classe, di chiesa, di Stato, facendone i demoni, dando loro dignità di “male”, dirottando sdegno, rabbia, rivolta, contro di loro, servite oggettivamente il potere, il fascismo, quali oggi concretamente vivono e prosperano nel nostro paese.

In tutta questa vostra storia antifascista non so dove sia il guasto maggiore: se nel recupero e nella maledizione d’una cultura violenta, antilaica, clericale, classista, terroristica e barbara per cui l’avversario deve essere ucciso o esorcizzato come il demonio, come incarnazione del male; o se nell’indiretto, immenso servizio pratico che rende allo Stato d’oggi e ai suoi padroni, scaricando sui loro sicari e su altre loro vittime la forza libertaria, democratica, alternativa e socialista dell’antifascismo vero.
Il fascismo è cosa più grave, seria e importante, con cui non di rado abbiamo un rapporto di intimità. Altro che roba da “vietare” con la “legge Scelba” (serve a “sciogliere” la Dc?), da reprimere con qualche denuncia a qualche carabiniere, per legittimare meglio la funzione antioperaia, o da linciare a furor di popolo – antifascista!
Il rapporto fra fascismo-capitalismo e sinistra è complesso, allarmante, incombente, presente, ambiguo, da oltre cinquant’anni, 1973 compreso. […]

Ma basta. Se tutto quello su cui sono andato scrivendo finora ci divide, Andrea, nulla di ciò è essenziale nel tuo libro, o nell’esistenza che vi si affaccia e si esprime, e che conosco. Tu, a Milano, noi altrove, abbiamo dovuto e forse saputo, ogni giorno per anni quanto lunghi, inventare tutto, rifiutare ogni strumento esistente, ogni scorciatoia, ogni facilità, per poter avanzare almeno di un poco. I mezzi che ci si offrivano già pronti, che facevano la forza apparente di tanti altri, non erano omogenei, non prefiguravano quel che cerchiamo, e cerchiamo di costruire.
La fantasia è stata una necessità, quasi una condanna, piuttosto che una scelta; sembrava condannarci ad esser soli, voi lì, noi ancora più sparsi e con più fronti addosso. Così abbiamo parlato come abbiamo potuto e dovuto, con i piedi, nelle marce, con i sederi, nei sit-in, con gli happening continui, con erba o con digiuni, obiezioni che sembravano “individuali” e “azioni dirette” di pochi, in carcere o in tribunale, con musica o con comizi, ogni volta rischiando tutto, controcorrente sapendo che un solo momento di sosta ci avrebbe portato indietro di ore di nuoto difficile, troppo spesso considerati “diversi” dai compagni e colmi invece d’attenzioni continue, di provocazioni, di colpi da parte dei pula e non dei minori.

 

Abbiamo durato, rifiutando di sopravvivere, ricominciando sempre, facendo anche delle sconfitte materia buona per dar volto e corpo alle nostre testarde, e alla fine semplici e antiche, speranze. Noi abbiamo colto qui qualche successo che tutti ora riconoscono. Tu anche, ma eri più solo. Questo, nel libro, non riesci a ignorarlo, o nasconderlo. Ho sempre pensato a te come a un compagno impegnato in un’opera comune, in lotte necessariamente convergenti e da organizzarsi insieme. Tu no, è questa la differenza. Quando accettai, e tenni a lungo, la “direzione responsabile” di Re Nudo, fra decine d’altre, non era per abitudine, o con indifferenza. Non eri un nome di più, un ennesimo compagno di un’ora o d’una occasione. Un compagno assente, certo. L’altra faccia del tuo libro, vorrei che tu lo comprendessi, sono le lotte che abbiamo dovuto condurre senza di te, su cui era giusto e naturale contare, perché le condividevi e le condividi. Le battaglie per i diritti civili sono mancate a tutto il Movimento: un inconsapevole razzismo di generazione, un rifiuto di “politica” (quella senza kappa) un po’ da struzzi, in proposito, un rozzo paleo-marxismo (in moltissimi, non in te), un’indifferenza che era cecità dinanzi a concreti scontri di classe e libertari, hanno fatto strage soprattutto a Milano. Così, oggi, sei uno dei pochi che resti sulla breccia, di tutti i tuoi compagni di un anno, e ci è andata bene. Ti ho conosciuto in un periodo in cui incontravo Pino Pinelli, Ivo della Savia, Felice Accame, Carlo Oliva, Oreste Scalzone, e poi Pietro Valpreda e Roberto Gargamelli o il Marco Maria Sigiani e il Meldolesi, il Risé e tanti altri che ricordi all’inizio del tuo libro, ma che ben presto scompaiono.

 

Continueremo ancora a lungo a marciare divisi? Segnali, ogni tanto, le nostre vittorie – anche se tendi involontariamente a sminuirle, facendole mie, individuali e non – come sono – di quel collettivo felice e raro che è il Partito Radicale. Oggi, con la battaglia che abbiamo iniziata per i dieci referendum abrogativi di tutto il merdaio legislativo del regime, lo scontro diventa agli occhi di tutti, per molti versi, generale e conclusivo.
Ancora una volta, ti sarà concretamente estraneo? Non mi pare possibile né accettabile.
Il tuo è il libro di un prezioso Gavroche della nostra contestazione, di una generazione politica che è forse l’unica a non essere ancora interamente battuta dal regime della Dc (già Pnf) e dell’introvabile sua opposizione.
Drammatico, solido, rapido e allegro; anche per me sorprendente autobiografia non narcisistica d’un militante senza obbedienze (ma senza abbandoni e distrazioni) che racconta come tutto possa tramutarsi nell’oro o nel miraggio d’una politica nuova e libera: erba, musica, pipa e fucili di parole o di cartone, penitenziario militare, carcere giudiziario, aula di tribunale, una soirée alla Scala, giochi violenti attorno al grande Corriere, un po’ di vernice su un monumento da scoprire, una caserma, un albergo, voterò per questo libro quando sarò chiamato a far parte – prossimamente – nelle giurie del Viareggio, dello Strega, del Campiello.

 

Avrò argomenti per difenderlo, lettori per sostenermi. Lo leggeranno i trentamila del festival di Zerbo; altri cinquemila renudisti che non riuscirono ad arrivarci; i diecimila della Statale che han fatto in questi anni – come racconti – clap-clap al Capanna; il mezzo migliaio di compagni che ti han conosciuto nelle carceri militari e civili o in caserma; i vecchi beatniks, provos, onda verde, hippy, situazionisti, freaks di questi dieci anni, dalle lotte contro le diffide e i fogli di via, al Vietnam; gli “zii” – e i nipoti del Partito Radicale, che ormai son tanti… e i gruppi collegati di Stampa Alternativa, di Marcello Baraghini e Guido Blumir. Un centinaio di migliaia di persone; anche se, proprio loro, non ne avrebbero bisogno.

Consiglierei piuttosto di leggerlo ai genitori-disperati per i figli-persi e contestatori; ai progressisti-bene in mal di politica dei redditi e di programmazione, sconvolti e indignati di non esser divenuti i vostri idoli; a quanti si meravigliarono e scandalizzarono nel vedere le rare sedi del prestigioso partito dei Pannunzio e dei Carandini, dei Benedetti e dei Piccardi divenute il ritrovo e il covo di bande sottoproletarie e capellute, di studenti in rivolta e comunisti, di anarchici e trotzkisti, prima ancora di riempirsi di fuori-legge del matrimonio e di obiettori di coscienza, di femministe e di omosessuali, di freaks e di abortisti, di veri credenti e di vegetariani nudisti, di “avanzi di galera” d’ogni genere. Capirebbero finalmente qualcosa di sé stessi, oltre che di voi, di noi. E le loro facce ne diverrebbero meno peste e bolse.
Altri, scorgerebbero in questa storia un affresco felice d’una Milano troppo a lungo e tetramente edita: quella stessa d’un altro – ma celeberrimo – scrittore di storia e lotte meneghine: il prefetto Mazza, con i suoi corifei dello Specchio. E avrebbero pienamente ragione: come chi preferisce sottolineare quanto facile e piacevole sia leggerti.
Ora basta. Ho da occuparmi di trovare il primo milione per il quotidiano del Pr. Sembra che sia urgente. Se ho ben capito, infatti, per un quotidiano (anche se minimo, anche se “alternativo”) è necessario poco meno di un mezzo miliardo in un anno.
Con Re Nudo, mi darai una mano?

 

 

A “Tribuna politica”,
Secondo canale Rai,  18 luglio 1974

E’ il primo intervento televisivo di Pannella, convocato dalla Rai per la registrazione dopo aver avuto un colloquio con il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Due mesi prima l’Italia aveva risposto No all’abrogazione della legge sul divorzio. Pannella è reduce da un lungo digiuno ma trova la forza per inveire contro “l’ignominioso aborto clandestino di massa”. Aborto, lesbiche, omosessuali sono ancora parole tabù in televisione: la trasmissione viene spostata dal Primo al Secondo canale e posticipata nell’orario dalle 21 alle 22. 

 

Siamo qui perché abbiamo strappato una concessione, direbbero altri; io direi invece: siamo qui perché abbiamo restaurato la legalità violata da questo regime che ha oppresso le minoranze e le opprime, che discrimina contro la Costituzione. Siamo qui perché, senza attendere la splendida sentenza della Corte costituzionale che ha chiarito che da dieci anni almeno la libertà e i diritti costituzionali del cittadino sono stati sequestrati da un sindacato di partiti contro i diritti costituzionali di tutti, ci siamo messi a lottare una volta di più, in forme anche (alcuni spettatori lo sanno) dure e nuove, e quindi questa sera siamo qui innanzitutto non perché c’è da discutere il diritto di famiglia ma siamo qui perché abbiamo conquistato per noi e per tutti, per la Costituzione e per la Repubblica, per gli altri intervenuti un diritto, ed è il diritto di tutti quanti noi.

E adesso, quindi, credo che per noi questo dibattito comporta soprattutto alcune chiarificazioni, anche perché il diritto violato non è solo quello nostro, non è un diritto corporativo: è il diritto dei cittadini di conoscere per giudicare; di conoscere la Lega italiana per il divorzio (Lid); di conoscere il Partito Radicale; di conoscere gli obiettori di coscienza; di conoscere le donne del Movimento di liberazione della donna; di conoscere tutti i diversi di cui è fatta la politica italiana; di conoscere i socialisti, i comunisti e i democristiani come sono davvero, come il 13 maggio si sono rivelati, e non dietro lo schermo di una politica di vertice che sta infradiciando e ci sta buttando tutti, purtroppo, in una situazione catastrofica. E quindi dirò innanzitutto che la Lid è qui, mentre dovrebbe essere già scomparsa. 

 

Che bisogno c’è di una Lega italiana del divorzio quando il 13 maggio il paese ha risposto a Fanfani che non è affatto vero che se vince il divorzio il paese diventa, come lui ha detto testualmente in Sicilia, vittima di una massa di lesbiche e di omosessuali? Bisogna avere il coraggio di adoperare queste parole. E in realtà, non potendo abrogare il divorzio, si è già cercato di abrogare i divorzisti, i laici, per abrogare tutti i diversi, come ogni regime cerca di fare. E ci si è abrogati, e noi rivendichiamo questo titolo di merito, forse un poco stanchi di essere questa sera in piedi avendo detto No a un sopruso e quindi avendo detto No a tutti i soprusi; e quindi aiutando i nostri compagni socialisti, i nostri compagni comunisti, i nostri amici liberali, tutti coloro che sperano; ma soprattutto aiutando tutti coloro che hanno detto Sì o No il 13 maggio, ma che hanno in quel momento sentito che la vita di un paese, che la vita politica, che le leggi sono qualcosa di importante perché affondano nella coscienza di ciascuno di noi, nelle nostre notti non meno che nei nostri giorni. E si capisce, allora, che cosa significa magari il termine patria, cosa significa Repubblica, cosa significa legge, perché si sa che libertà e felicità a questo punto sono la stessa cosa.

 

E’ vero anche che noi ci stiamo occupando del diritto di famiglia; ce ne stiamo occupando ma assieme ad altre cose, quelle per le quali ci si è voluto abrogare, quelle per le quali si sperava di averci assassinato politicamente, come tutte le altre minoranze. Come il regime, in fondo, ha assassinato il mio compagno e amico Pinelli, come ha assassinato il mio compagno e amico Trebeschi a Brescia, e i tanti morti che da trent’anni non sono più commemorati nel nostro paese, che sono vittime del fascismo ma dell’unico fascismo che noi conosciamo: il fascismo delle istituzioni.
 Il fascismo vero non è affare di teppismo: è violenza delle istituzioni. E noi della Lid, e del Partito Radicale, siamo qui per ricordare che senza alternativa laica, libertaria e socialista, senza nonviolenza, senza una testimonianza di vita di questo tipo, il fascismo, in realtà, oggi nel nostro paese, rischia di essere lo Stato e non pochi sicari, poche vittime anch’esse in fondo del disastro morale nel quale stiamo precipitando.
Volevo dire ancora una cosa: se si è voluto abrogare è perché si tenta di abrogare nel paese la voce della coscienza e la voce della gente; e noi siamo gente. Tutte le cose importanti si conquistano: non si è gente, all’origine; lo si diventa. Ci si è voluti abrogare prima del 12 maggio, ci avete escluso dalla televisione… Nemmeno voi, questa volta! Riconosciamo i fatti: è il sindacato dei partiti parlamentari che si è costituito in questo caso come strumento di violenza contro di noi, escludendoci.

 

Noi che avevamo già altra volta dovuto occupare la Rai-Tv per avere il diritto… quale diritto? Non solo di parlare noi, ma di portare Gabrio Lombardi per la prima volta a parlare e a difendere tesi divorziste; perché nemmeno quelle… in realtà… le tesi antidivorziste… nemmeno quelle in realtà si potevano proporre.
Quindi la risposta è questa: stasera siamo qui per discutere dell’aborto, prima ancora per esempio del diritto di famiglia. Perché? Perché un milione e mezzo di donne, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 850.000 donne secondo il ministero della Sanità italiano, tre milioni di donne secondo il Movimento di liberazione della donna, ogni anno sono costrette all’ignominioso aborto clandestino di massa, più ignominioso ancora che il divorzio di classe della Sacra Rota che ci veniva imposto contro il divorzio che abbiamo ottenuto.

 E siamo quindi qui per dar corpo e parole a dei tabù. Per esempio, sul diritto di famiglia, diciamo semplicemente che dopo sette anni è una finzione, questo dibattito. Non c’è bisogno di spiegare nulla: la Rai e la tv ci hanno già quattro anni fa raccontato che questa riforma era passata. Il regime, abile nella propaganda, aveva dichiarato che, dopo il voto alla Camera di questa riforma, ormai la nuova famiglia italiana, giuridicamente parlando, era nata. E per quattro anni cinicamente questa riforma, che di per sé per noi è già arretrata, non è stata votata perché c’era bisogno di non votarla per adoperarla come alibi contro la legge Fortuna. Ma, poiché siamo convinti che bisogna difendere la legalità repubblicana, anche quando non siamo d’accordo, il significato della nostra azione e il contributo che diamo a questo dibattito è uno solo, per quel che riguarda il punto specifico: dopo cinque anni, basta con questa caricatura di dibattito parlamentare che offende il Parlamento.

La Conferenza episcopale italiana ha terminato il suo appello (quando ha cercato di strumentalizzarci tutti, credenti e non credenti, abusando del Concordato, della religione e del suo potere in modo indegno di chiunque creda alla religione della libertà o a qualsiasi altra religione) ha terminato il suo appello, a febbraio, a tutti gli uomini di buona volontà, perché si realizzi l’approvazione del diritto di famiglia.
Gli uomini di buona volontà siamo noi, siamo qui e chiediamo che entro tre mesi o quattro al massimo il voto sul diritto di famiglia, su questo testo, avvenga. Noi siamo dei libertari, quindi non diciamo: l’approvazione ci sia ma il Parlamento salvi sé stesso assolvendo le sue funzioni e abbia il coraggio dei Sì e dei No e la Democrazia cristiana avendo il coraggio a questo punto o di votare il testo, che aveva votato quattro anni fa, o proclamando chiaro ancora una volta che usa e abusa di tanti valori politici, anche di coloro che dice essere i più sacri.

 

 

Intervista a Playboy, 1 gennaio 1975

La vita, dall’adolescenza ai primi impegni politici, lo zio prete e altri fatterelli della giovinezza, l’impossibilità del divorzio tra vita pubblica e vita privata, i libri, la politica e l’ideologia. Da questa lunga intervista pubblicata all’inizio del ’75 su Playboy, di cui riproponiamo ampi stralci, un ritratto a più facce del leader radicale.


Playboy - Quanti anni hai, Marco?

Pannella - Quarantacinque. Sono nato nel segno del Toro, a Teramo, in Abruzzo. Mi chiamo Giacinto Marco, Giacinto come un mio zio sacerdote, un personaggio abbastanza insolito, in quella che era la tipica famiglia agraria meridionale, dove al primogenito spetta il diritto di occuparsi degli affari della casa, mentre il secondo fa il prete, e gli altri diventano notaio o farmacista, si “sistemano” in vario modo. Questo zio si fece prete, e però continuò a occuparsi dell’amministrazione delle terre, rimase insomma il classico capofamiglia. Era l’unico che avesse interessi culturali. Pubblicava una rivista, una cosa del tutto artigianale e provinciale che però, per un caso strano, e con una certa commozione, ho poi ritrovato in biblioteche specializzate, a Parigi e a Vienna.

Il mio don Giacinto ebbe fra l’altro un gesto abbastanza audace per quei tempi. Quando mio padre, che aveva voluto fare l’ingegnere e aveva studiato a Torino e poi a Grenoble, tornò a casa con la moglie francese (nata in Svizzera, figlia di albergatori), una donna che non parlava altro che la propria lingua e aveva i capelli corti in un paese dove tutte le donne li avevano ancora raccolti a crocchia sulla nuca, e indossavano vesti nere lunghe fino ai piedi, lui capì che doveva aiutare la giovane coppia piombata in un mondo diverso e difficile: così scorporò la parte di proprietà che spettava a mio padre, e gli dette qualche possibilità. E potrebbe anche darsi che io non abbia animosità anticlericali per questo semplice dato di cronaca, perché la persona migliore della mia famiglia era questo clericale; e ho sempre avuto ottimi amici preti. Sono un laico, tranquillamente, senza lotte interiori o problemi.

Playboy - Da quanti anni sei in politica? Si ha l’impressione che tu ti occupi di politica da sempre.

Pannella - L’impressione è esatta. Credo d’aver capito, già piccolissimo, che non ci può essere divorzio fra vita pubblica e vita privata, che i fatti della vita privata diventano occasione per fare politica e quindi vita pubblica. Io sono cresciuto per i primissimi anni fra Teramo e Pescara. Un’infanzia normale, con molte donne, zie, contadine, che mi accudivano, e giochi e allegria. Però in quella normalità, in quella felicità, c’erano piccole cose di grande importanza. Un certo calzolaio antifascista, dove non si doveva andare, io avevo tre o quattro anni. Beveva, dicevano che era per questo che non ci si poteva andare, però si capiva che il male era che urlasse contro il fascismo. Mia madre che in casa parlava francese, e c’era sempre qualche notabile che veniva a dirle che non si doveva fare, non era bene, bisognava stare attenti: ma se il francese era la sua lingua! Io avevo una compagna di giochi, si chiamava Adria, era il mio primo grande amore, avrò avuto sette, otto anni. Bene, un giorno non si vide più. Scomparsa. Era figlia di ebrei, e la sua famiglia aveva lasciato il paese.

 

Io passavo dei periodi in Francia presso un “instituteur”, per imparare, ed ero adorato da tutti e due, marito e moglie; però fra loro litigavano a morte, e così io ero sempre in mezzo, a volte prendendo le parti dell’uno o dell’altra. Persino decidevo se dormire col marito o con la moglie. Mi ricordo che mi chiedevo perché quei due, che si facevano reciprocamente una vita d’inferno e che separatamente erano persone così amabili, dovessero continuare a vivere insieme. Significava già, forse, porsi sia pure in maniera rozzissima il problema del divorzio, ribellarsi all’idea che due siano legati per sempre perché un giorno hanno deciso di sposarsi… Significava, forse, ribellarsi alle costrizioni, rivendicare il diritto di essere antifascista, di parlare la propria lingua, ribellarsi all’ingiustizia della discriminazione razziale.

Sono fatterelli, come vedi, però servono a dimostrare quello che ho sempre detto, che vita privata e vita pubblica sono un tutt’uno. Difendere la propria “privacy”, che vuol dire? Io non vedo dove essa cominci e dove finisca…

Playboy - Infatti ti accusano di non avere una vita privata.

Pannella - E’ sempre l’esperienza personale, privata, che si trasforma in politica e ti dà la forza per combattere le battaglie. Prendi per esempio quella per la legalizzazione dell’aborto; o quella per il divorzio. Le persone che ci credono, che ci hanno creduto, partono dalla politica, o dall’esperienza della vita privata? Io dico sempre che le leggi non devono affondare solo nei giorni, ma anche nelle notti. Contano le verità che hanno radici nella tua storia. Capisci cosa voglio dire? Tanto più “privati” certi fatti m’appaiono, tanto più pubblici e politici cerco che siano riconosciuti. E quella eterna polemica fra amore e amicizia, che grosso equivoco! Dire che con la ragazza puoi chiavare e con l’amico devi parlare, vuol dire dividere in due la propria vita. Un’assurdità.

 

Playboy - E a un certo punto sei entrato nella politica…

Pannella - Ma no, ma no, ho fatto sempre politica a modo mio, e il modo è stato sempre lo stesso: l’interesse per gli altri, il dialogo. Ero studente, a Roma, uno studente un po’ avanti perché mia madre nel suo desiderio di perfezione aveva preteso che saltassi due anni, e un giorno ho visto in edicola Risorgimento Liberale. L’ho comperato, mi ha interessato. Mi pareva che ci fosse quello che più amo, la libera discussione intelligente. Da quel giorno ho sempre comperato due copie di Risorgimento: una per me, e una per i miei compagni di scuola, perché la leggessero e ne discutessero, e portassero le loro obiezioni e esponessero le loro idee… Così io e alcuni altri abbiamo cominciato a frequentare via Frattina, dove era la sede del Pli, piano piano ci siamo avviati in quella direzione che poi è stata la sinistra liberale.

 

Eravamo ragazzi, gli stessi ragazzi che andavano a giocare a pallone o a ballare con le ragazzine, che cioè avevamo quella che tu, che voi chiamate vita privata, ma una vita privata che coincideva con quella pubblica. Perché dialogo, per me, è qualcosa di complesso e completo, non unicamente “spirituale”: dialogo sono anche le carezze, come i baci e i pugni e gli amplessi, oltre alle belle idee. Il mio manifesto, il manifesto dei radicali, ci viene da un grande poeta, Rimbaud: “Le raisonnable dérèglement des sens”, il ragionevole sregolamento dei sensi. Una frase “anti maudit”: Rimbaud aveva intuito quello che i cibernetici hanno intuito a livello scientifico. Il dramma era la ragionevolezza. Anche per noi radicali è così.

Playboy - Quei ragazzi, dunque, bazzicavano coi grandi, stavano a sentirli e cercavano di recepire, dei loro discorsi, quello che appariva più vero. E tu, in mezzo a essi, probabilmente eri uno pieno di sacri furori…

Pannella - Oh, no. Soltanto un po’ ardente. Ma in un modo diverso dai sacri furori, che fanno sempre pensare a qualcosa di cupo, di introverso; a una voluttà di martirio. Io sono un estroverso, sono uno che ama la vita, per nulla tormentato, per nulla bruciante. “Route de braise et non de cendre”, diceva un poeta. Non la fiammata che brucia e lascia inutile e triste cenere, ma la brace, che dura a lungo.

 

Playboy - Quei ragazzi, certo, discutevano le opinioni dei grandi.

Pannella - Qualche volta oggetto di discussione, non di polemica. Io già allora parlavo molto, e - credo - con un certo potere di persuasione. Forse lo esercitavo anche su di loro. O forse essi erano, in fondo, abbastanza aperti, abbastanza comprensivi. O forse esasperati di sentirmi discutere senza arrabbiarmi. Del resto, nemmeno loro si arrabbiavano mai. E poi, una tesi di laurea l’ho presa, no? A Urbino, con un voto bassissimo: 66. Scelsi Urbino perché pareva che lì avrei potuto fare presto. Discussi per tre ore, con undici professori. La tesi era, guarda un po’, sull’articolo 7 del Concordato, quindi da discutere c’era abbastanza. Come vedi ho sempre le stesse idee. Fin dal principio. Un noioso, uno che si ripete, sempre lo stesso disco. […]

Playboy - Come tutti i ragazzi, tu certo leggevi molto. Quali sono le matrici ideologiche, voglio dire di pensatori del passato, o le correnti di pensiero, da cui poi è scaturita la tua battaglia?

Pannella - Io non credo nelle ideologie, non credevo nelle ideologie codificate e affidate ai volumi rilegati e alle biblioteche e agli archivi. Non credo nelle ideologie chiuse, da scartare e usare come un pacco che si ritira nell’ufficio postale. L’ideologia te la fai tu, con quello che ti capita, anche a caso. Io posso essermela fatta anche sul catechismo che mi facevano imparare a scuola, e che per forza di cose poneva dei problemi, per forza di cose io ero portato a contestare.

Posso dire che sono stati importanti cinque o sei aforismi di Nietzsche sul bene e il male; e Gozzano, guarda un po’, e la “Sonata a Kreutzer”. Un certo numero di Esprit del 1947, trovato a Modane aspettando un treno. La “Storia dell’età del barocco”, di Croce. Un poeta, St. Jonn Perse, da leggere come si legge un’enciclopedia, e che tutti trovano difficile da leggere perché conosce troppi termini. Thomas Mann, aedo della borghesia. I miei compagni leggevano Marx, ti citavano immediatamente la quarta o la quinta risposta a Feuerbach. La segnalazione che si fa liturgia o litania. Io non ho letto Marx, ma ne ho preso quello che mi occorreva. E poi proprio bambino ho letto i grandi romanzi russi, trovandomi sempre un po’ a disagio coi patronimici, ma cavandomela benissimo, perché in realtà anche nel romanzo classico non c’è bisogno di un intreccio.

Ma quello da cui ho imparato molto sono i giornali. Perché nei giornali c’erano idee che non apparivano, forse per le loro posizioni, cioè per essere collocate a fianco del fatto contingente e minuscolo, avulse dal presente. Leggere un settimanale, un quotidiano, è importante perché ne ricevi idee che prendono corpo dentro di te, che diventano te stesso. Ho letto Il Mondo e Risorgimento Liberale.

 

Playboy - C’è stato un anno, un tempo, particolarmente bello, significativo per te?

Pannella - Tutti gli anni sono belli. Quest’ultimo per esempio, che doveva essere l’anno dell’assassinio politico del Partito radicale, è l’anno della sua vittoria, l’anno del referendum per il divorzio. Ma ogni anno è bello, perché ogni anno si fa qualcosa, con i comizi, con gli “happening”, con le azioni individuali e collettive, con le parole, con i gesti, cantando e agitandosi, senza un attimo di sosta perché fermarsi un attimo significherebbe tornare indietro di giorni e giorni. Ogni anno è bello perché io sono felice di fare quello che faccio, di digiunare e di sentirmi dare del Gandhi da strapazzo, di firmare i fogli degli extraparlamentari nei quali non ho mai creduto ma che hanno diritto di avere i loro giornali, di difendere gli obiettori di coscienza anche quando si tratta di fascisti cretini, di urlare, di perdere la voce e la salute, persino felice che femministe diano, a me, dell’antifemminista…

Playboy - Dell’antifemminista a te, il “paladino delle donne”?

Pannella - Ma sì. Perché io mi sono battuto come mi sono battuto per l’aborto, ecco che allora si accorgono che do fastidio, che cioè mi sono impadronito di temi e argomenti e battaglie che sono le loro… Vedono ancora in me il rappresentante dell’uomo, il “maschio” che strumentalizza la donna fingendo di difenderla, il prevaricatore. Non sono tutte le femministe, naturalmente, che dicono così, ma solo alcune fra esse, quelle che hanno ancora residui maschilisti. Diciamo che sono delle femministe che commettono errori. Le donne, errori non ne commettono. Lo hanno dimostrato al momento del referendum, perché è chiaro che per il divorzio hanno votato anche quelle che di emancipazione non sanno e non vogliono sapere.

 

Playboy - Tu trovi giuste tutte le rivendicazioni delle donne?

Pannella - Io trovo giuste tutte le rivendicazioni delle minoranze. Così mi batto per la liberazione della donna come appoggio il Fuori e chiunque abbia qualcosa da dire e si senta oppresso, così il nostro partito è il rifugio di fuorilegge del matrimonio e di obiettori di coscienza, di femministe, di freaks e di abortisti, di vegetariani e nudisti, insomma “avanzi di galera” di ogni tipo. Tutte le minoranze si devono difendere, nessuna ha la priorità sulle altre. Io difendo anche chi è buttato in carcere solo perché è fascista, perché l’etichetta non mi interessa, mi interessa che si tratti di una minoranza alla mercé della strapotente maggioranza. E ho difeso più volte le minoranze extraparlamentari con tutte le loro intemperanze, pur sapendo che mi consideravano al di fuori, uno con idee utopistiche, un borghese. Quelle che non posso approvare sono le minoranze al potere, perché subito loro campo privilegiato diventa la violenza: per me, per noi radicali, ogni fucile è nero, come ogni esercito e ogni istituzionalizzazione della violenza, contro chiunque la si eserciti.

Playboy - Tu difendi anche la droga, l’erba “particolare”.

Pannella - A me personalmente l’erba non interessa. Io ho la mia, che è la nicotina. C’è dentro di me un’autostrada di nicotina e catrame, dentro la quale viaggia quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Certo mi pare logico fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla troppo cara. La mia “erba” è sempre stata la mia spesa più grossa. Mi posso impegnare come m’impegno contro quel casino che chiamano l’Ordine per difendere l’erba e chi la fuma, ma fare di questa un segno positivo e definitivo mi pare sbagliato.

Playboy - Non riconosci in te matrici ideologiche; riconoscerai dei maestri, si saranno degli uomini politici, italiani o stranieri, dai quali hai imparato qualcosa…

Pannella - Non riconosco dei maestri perché non ne ho avuti, e le persone che per me hanno contato non volevano certo essere maestri. Due vite hanno determinato la mia. Le vite di due persone che sono morte, una quando era giusto che morisse, perché non aveva più speranza ed era convinta di aver finito: l’altra, in un momento ingiusto, quando molte delle sue previsioni si avveravano. 

Parlo di Mario Pannunzio e di Ernesto Rossi. Il Partito radicale è fatto di tutto quello che dicevano Pannunzio e Rossi.

Pannunzio era la moralità, non il moralismo, il suo rigore era ciò che io amavo, anche stilistico, quando ci predicava di ispirarci a Flaubert. La sua indifferenza al potere, il maggiore insegnamento. Era un politico, se politico è colui che muta l’organizzazione della città, se politico è colui che incide nel proprio tempo. E chi, anche nel passato, ha inciso nel proprio tempo? Dicono: Mattei, Vanoni. Vanoni e Mattei hanno creato forse qualcosa a livello degli oggetti, ma in realtà ciò che Enrico Mattei, il demiurgo degli anni 50, ha lasciato, è la “realpolitik” della corruzione; a Vanoni alcune buone soluzioni di meccanismo di controllo politico. Niente che abbia inciso, come appunto Pannunzio e Rossi, anche dai loro amici, dai loro compagni, mai considerati dei veri politici.

 

Playboy - Ma Ernesto Rossi, davvero tu lo consideri un politico?

Pannella - Eccome. Lui, così lieto, della letizia di un fanciullo, di esistere, aveva previsto tutto: il corporativismo di Stato, la mano pubblica che dà profitti alla mano privata. Lui così innocente aveva individuato che si andava incontro alla sconfitta storica.

Playboy - Non avevano molto in comune, in apparenza…

Pannella - Erano due borghesi con una qualità insolita per un borghese, il disinteresse per il denaro. Perché di denaro non avevano bisogno. Non avrebbero saputo come spenderlo. Il consumismo non era affar loro…

Playboy - Tu dici “borghesi”. Talvolta ti danno del borghese come un insulto.

Pannella - Non vedono il borghese come lo vedo io, cioè colui che si ispira, che dà corpo alle grandi idealità della rivoluzione francese. Certo, sono un borghese, e felice di esserlo.

 

Playboy - Dicono che se fossi un mistico potresti trascinare dietro di te folle in preghiera.

Pannella - Già. Ma non lo sono. E non amo trascinare, bensì convincere. Il dialogo, l’ho già detto. Il dialogo con quelle stesse parole sempre: conoscersi e riconoscersi.

Playboy - E dicono anche che spesso e volentieri sei un po’ gigione.

Pannella - Certo. Quando parlo in un comizio, quando scelgo in mezzo alla folla piccola o grande che mi guarda quei tre o quattro visi, so di fare teatro, cultura. E la gente cosiddetta “umile” mi capisce più dei politicizzanti. Ma io credo nella cultura, non nella natura. Il Buon Selvaggio di Rousseau mi fa ridere. La chiarezza, la purezza, la limpidezza dell’infanzia? Ma la chiarezza, la purezza, la limpidezza del patriarca michelangiolesco! Lo stato di natura è una condizione ambigua.

Playboy - Ma tu hai tempo di pensare alla tua vita?

Pannella - In verità non molto. Il mio problema è trovare un attimo di solitudine. La mia casa è sempre piena di gente, tutti possono entrarci quando vogliono usare le mie cose. Raramente, rarissimamente riesco a dormire solo. I politici invece sono sempre soli. Guardali quando escono dalla Camera, buttano giù un pasto cauto o ingordo e poi cercano un cinema dove sdraiarsi a sonnecchiare in attesa di andare a dormire. Soli, tetri, scontenti dell’esistenza, incapaci di dialogare perché incapaci di attenzione, sicuri di aver ragione, di essere il meglio mentre gli altri sono il peggio: sicuri che il Paese è immaturo, non loro.

 

Io vorrei talvolta un po’ di solitudine, anche per pochi momenti, e non certo per andare al cinema. Ma alla mia vita, del resto, non ho bisogno di pensare. Ne sono contento. Io amo la vita, amo i piaceri che la vita e la gente ti danno. La solitudine potrebbe servire per leggere di più, io ora leggo tre, quattro, dieci minuti al massimo, mi rileggo le stesse cose che poi cito a uno, a dieci, a venti persone, o, quando faccio politica, a cento, a mille: e sono sempre quelle citazioni, come una signora che mostra sempre gli stessi monili. Però sono letture che sono entrate dentro di me, diventano mia carne e mio sangue, e che io ora dò agli altri.

Certo, vorrei farne altre, ma quando? Eppure se c’è qualcuno che deve per forza vedermi, non so, un amico che passa per Roma per due ore, uno che ha assolutamente bisogno di vedermi, io riesco in qualche modo a quadrare tutti i miei appuntamenti, anche se sembrava che non ci fosse spazio libero, e faccio venir fuori quei pochi minuti che mi occorrono. Un’operazione che mi riempie di soddisfazione, che mi fa credere in me stesso non affidato al caso. […]

Playboy - Mi puoi dire in che cosa credi, in che cosa non credi?

Pannella - Non credo nel potere prima di tutto. Credo nella gente. Il mio movimento, i radicali, propongono tutti questi referendum. Siamo sicuri di vincere. Siamo sicuri di ottenere l’ottanta per cento dei voti favorevoli, siamo sicuri che a ognuno farà più piacere mettere la propria firma per un certo numero di referendum che per uno solo. L’ottanta per cento delle persone è profondamente d’accordo con noi, però non lo sono le istituzioni, e da qui viene quella dicotomia che ci tormenta. Ma combattiamo sicuri di vincere. La nostra forza è di esprimere quello che si chiama il sentimento comune della gente. E credo nella parola che si ascolta e si dice, dovunque, a scuola, a letto, nelle strade, nelle piazze, mentre non credo nell’invettiva, come non credo nei testi sacri o nelle ideologie.

 
 

Appello ai serbi, Zagabria, 29 dicembre 1991

A guerra d’indipendenza croata in corso, dopo la dichiarazione d’indipendenza dalla Jugoslavia e dopo che sono esplosi i conflitti etnici  tra serbi e croati in regioni, come la Slavonia o la Krajina a maggioranza serba, in cui avevano fino a quel momento convissuto pacificamente, una delegazione di militanti radicali si reca in Croazia per condurre un’iniziativa di pace. Di Pannella questo “appello ai serbi”.

Cari amici serbi, noi sappiamo, e ripetiamo in ogni occasione, con il massimo di convinzione e di passione, che voi siete oggi le prime, maggiori vittime della politica che il regime di Belgrado e gran parte del mondo hanno convertito in guerra, violenza, intolleranza, antidemocrazia. Non solamente perché muoiono per questo migliaia di ragazzi arruolati nell’esercito divenuto golpista, serbi, macedoni, bosniaci, montenegrini, ma perché muoiono, soffrono, piangono, odiano la loro stessa vita mentre sono costretti a mettere a ferro e fuoco territori abitati da loro fratelli e sorelle, ad ucciderli, a costringerli a esodi che ricordano le pagine più nere della storia di questo secolo.  
 
Noi sappiamo che l’anelito verso la democrazia delle donne e degli uomini di Serbia, identico a quello nostro e di tanta parte del mondo, è oggi soffocato e irriso. La stessa pretesa “serba” di esigere garanzie per le minoranze serbe nelle altre repubbliche, e di negarle in radice per le minoranze albanesi, croate e di ogni altra lingua e storia, nel vostro paese, è espressione di una visione violenta, aggressiva, intollerante che non manca di manifestarsi con sempre maggior forza anche all’interno della normale vita politica, sociale, culturale del vostro paese. (…)  
 
Il Partito Radicale per anni è stato fra di voi, clandestinamente, per animare e affermare la sua fraternità con gli oppressi da una dittatura per forza di cose incompatibile con la tolleranza, con la democrazia politica, con una Europa della libertà e della giustizia, della nonviolenza e della pace.  Oggi – secondo gli insegnamenti di Gandhi – il Partito Radicale sceglie di essere accanto ai popoli aggrediti con la guerra, a fianco della violenza delle vittime contro la violenza degli aggressori. Alcuni di noi, per questo, saranno in servizio di prima linea non armato fra i difensori delle città e delle popolazioni croate, animati da solidarietà e da amore per la vita, diritti anche di coloro che al fronte sono costretti ad ammazzare, a usare violenza, abusivamente in vostro nome e per vostro conto.

Come voi, noi speriamo (e lottiamo) per una Serbia, grande per civiltà, per democrazia, per tolleranza, per cultura, per giustizia, per rispetto degli altri, europea, confederata con gli altri liberi popoli dell’ex Jugoslavia, associata all’Unione europea. Viva il popolo democratico serbo, viva la democrazia politica, viva l’Europa federata e pacifica, viva l’amicizia e la fraternità nella libertà, nell’interdipendenza democratica e europea, di serbi, croati, sloveni, albanesi, macedoni, montenegrini, di italiani, tedeschi, ungheresi, rumeni, austriaci, bulgari, greci, bosniaci, voivodini, del Kossovo…

 

 

Al convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, Roma, 28 luglio 2011

Contro la malagiustizia, contro le ingiuste detenzioni e le oppressioni del sistema carcerario, per l’amnistia: fino all’ultimo, una delle  battaglie politiche di Marco Pannella.

Vedete, anche oggi riproponiamo il problema dell’amnistia, dopo che per più di trent’anni in sede istituzionale e con dibattiti riproposti – gli atti parlamentari lo testimoniano in modo indiscutibile – lo abbiamo indicato come strumento essenziale per interrompere un processo di moltiplicazione all’ennesima potenza dei momenti giudiziari, fino appunto a negarli, come accadeva già dal diritto romano, ma anche nel diritto canonico. L’ho già detto e sono stato equivocato: nella giuridicità dell’Inquisizione, nel potere temporalissimo della Chiesa, del Papato, cosa accadeva? Si dice che l’amnistia veniva concessa “ogni morte di Papa” e questo corrispondeva a saggezza perché era finalizzata a consentire non dico una compattezza, ma certamente almeno una continuità fra l’evento imputato e imputando e il giudizio e quindi fra la verità storica e la verità giudiziaria. C’è un momento nel quale appunto, anche all’interno del diritto canonico, si passa attraverso una sospensione. Il termine Inquisizione è un termine che finalmente nobilita il procedimento di tipo giudiziario e giurisdizionale, invece di lasciarlo confuso in altri, con funzioni o pretese più eterne, senza entrare troppo nel particolare. (…)


Cominciamo con il chiarire: noi diciamo amnistia, e lo ripetiamo da trent’anni, innanzitutto come strumento per i magistrati, per evitare – allora lo dicemmo – che accadesse con la moltiplicazione dei processi penali quello che qualche anno dopo noi prevedevamo sarebbe accaduto per il debito pubblico e subito prendemmo iniziative parlamentari. Ma delle due cose – del pericolo del moltiplicarsi dei processi con l’obbligatorietà dell’azione penale, a tal punto da non essere più gestibili dall’amministrazione della giustizia, e poi della certezza di un automatico esponenziale ingigantirsi del debito pubblico – l’Italia non ha saputo mai nulla ed erano le cause che oggi spiegano la crisi della giustizia e del diritto, della vita del diritto nel nostro paese, e la crisi economica attuale. Oggi il presidente della Repubblica sicuramente sarà andato a sentire che notizie c’erano sui debiti pubblici, nostro e altrui, ma su questo il sessantennale sistema italiano partitocratico, sempre più gravemente tale, e non democratico, non Stato di diritto, non è servito al paese, è stato solo funzionale alla crescita esponenziale di quegli andamenti tendenziali che ci inducevano già all’inizio degli anni 80, con Crivellini, a proporre il 7 per cento di rientro annuale del debito. Nessuno l’ha saputo, tranne noi.


Ugualmente, nessuno sapeva fino a che punto sarebbero arrivati questi processi, con l’obbligatorietà dell’azione penale che va rispettata. Ebbene, siamo arrivati a questo, alla insostenibile situazione attuale. Allora devo dire al ministro Alfano – è noto che io ho avuto simpatia per lui, ho avuto fiducia, Rita Bernardini poi tanta gliene ha fatta, in modo motivato – che l’ultima notizia che ci ha dato, per rincuorare chi gli faceva fiducia, è che nell’anno precedente, limitatamente ai processi civili, c’era stato il 4 o il 5 per cento di riduzione. A quel livello significa che ci vorranno quindici-diciotto anni per riprenderci, mentre però c’è una situazione strutturale che continua a proporre in realtà quello stesso andamento. Allora la nostra proposta è che occorra immediatamente ricorrere ad un’amnistia, quella da “ogni morte di Papa”, quella necessaria per alleviare e rendere di nuovo possibili un minimo di compattezza e direi di contiguità fra l’evento di rilevanza legale e il giudizio. E’ un problema di fondo, di vita, della nostra società. Così semplice! No, nulla. (…)

 

Allora, cominciamo a dare dei dati precisi. Amnistia e prescrizione, che rapporto c’è? Scusatemi, ma non vi accorgete che sono i pubblici ministeri che realizzano l’amnistia strisciante annuale? I dati del ministero ci dicono che 200.000 all’incirca sono le prescrizioni all’anno e tutti quanti diciamo: questa è un’amnistia vergognosa, di classe... No, stiamo attenti, perché il ministero ci dice anche, per stabilire una media ogni anno, che su 200.000 archiviazioni 140.000 – è la media – le chiedono i pm perché il reato è prescritto. Dunque, una parte sostanziale di quell’amnistia strisciante di massa che è la prescrizione viene operata direttamente dai pm. Sono loro che selezionano i fascicoli, anziché la prescrizione breve o quella lunga, tutta quell’altra storia, che dovrebbe dipendere dal Parlamento! E’ un fatto strutturale, è una necessità vitale. Ma perché questo avviene? Per l’impossibilità sistemica, materiale, di poter perseguire, stando al principio della obbligatorietà dell’azione penale, tutto ciò che si dovrebbe perseguire.

Questo è un lascito post-rivoluzionario napoleonico che la monarchia ha subito raccolto, per amministrare la giustizia come una giustizia di Stato, funzionariale, con il giudice, una parte dei giudici che sono funzionari di Stato, non importa se del Re o della Repubblica. Dopo il fascismo si è stabilito il principio dell’obbligatorietà anche perché continuasse a inverarsi socialmente, sociologicamente, culturalmente questa concezione della giustizia come realtà statuale, statalista, burocratica nel senso migliore della parola; e insieme ad essa il problema di garantire l’indipendenza, problema che si pone con tanta maggiore enfasi soprattutto quando e dove ci sono la realtà di dipendenza oggettiva. Allora si spiega perché poi in Francia si siano un po’ meno preoccupati della indipendenza da garantire, fedeli a quel principio per il quale nemmeno la giustizia deve ritenersi un momento di discendenza divina e sacrale e deve anche essa essere in qualche misura sottoposta al principio democratico e alla concezione dello Stato di diritto, con tutti i guai piccoli o grandi che accadono. (…)

 

Se noi letteralmente sprechiamo le risorse in procedimenti e processi che non vedranno mai una fine diversa se non la prescrizione (200.000 l’anno in dieci anni sono 2.000.000, più le altre che non si calcolano), si tratta di una cattiva gestione del denaro pubblico. L’amnistia consentirebbe di chiudere questo inutile spreco strutturale, fatale, di danaro e di risorse umane, per impiegarlo più fruttuosamente per i processi che realmente destano allarme sociale e che meriterebbero di arrivare a termine. Ogni procedimento o processo che nasce, anche con la sola apertura di un fascicolo, ma che non si chiude con una sentenza nel merito, è denaro pubblico e tempo buttati via, giustizia distrutta, elusa, strutturalmente impedita. E’ uno spreco enorme! Centinaia di milioni di euro ogni anno in procedimenti e processi che si chiudono necessariamente con la prescrizione. (…)

Per chi dobbiamo pensare alla giustizia? Per la grande maggioranza, per l’immensa maggioranza del piccolo ceto medio, quello popolare, per tutti coloro per i quali avere la prima volta a che fare con la giustizia è già un elemento traumatico; certo, non per quelli che sono degli habitués, quelli che possono insegnare – li conosciamo – ai loro avvocati un po’ tutto, perché sono lì da cinquant’anni, da sessant’anni. Anche se i diritti umani dovrebbero valere anche per loro. E nessuno di loro dovrebbe essere neppure escluso dall’articolo 27 della Costituzione, se la Costituzione fosse tenuta in qualche conto e non fosse, per tutti, ignorata e calpestata. (…)

 


 

Cosa c’è da fare? Per i liberali, se c’è il tiranno, il tirannicidio è la soluzione di tutto. A noi però questo non poteva bastare e noi oggi l’abbiamo compreso e l’abbiamo già anche praticato con Ciampi, per esempio, quando l’arroganza di regime – sempre fondata sui precedenti, le consuetudini, quelle balle lì, come fonti di legge – gli negava di esercitare il potere di grazia che la Costituzione indubbiamente gli attribuiva. A quel punto noi ritenemmo che il presidente Ciampi potesse chiedere aiuto al popolo. Lui disse: “Io vorrei graziare quello” – era Sofri – “ma qui mi dicono che il processo è duale e non è più mio”. E noi accorremmo, dicendo che quello era un grido di aiuto che il Capo dello Stato rivolgeva ai cittadini. Questo è il riflesso del non violento. Il potere si atteggia a nemico e mostra di considerare spesso come nemici coloro che vogliono le riforme. Ma qual è la risposta non violenta? Noi diciamo: guarda, noi ti chiediamo soltanto di rispettare la tua propria legalità. Anche tu non puoi negare la necessità delle riforme. Non siamo i tuoi nemici, non mostriamo i muscoli, anzi noi vogliamo trasmettere a te, dentro di te, la forza di rispettare la tua propria legalità. Noi siamo interessati a che tu difenda la legge e invece sei tu, proprio tu che non riesci a rispettarla, perché poi anche il dittatore realizza qualcosa che ha scritto lui, o che gli hanno scritto, ma sempre interpretandolo in modo arbitrario, secondo le esigenze del momento. (…)

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