I figli che non vogliamo
L’Italia invecchia, fa pochi figli ma l’opinione pubblica sorvola sulle vere cause della crisi demografica. L’economia non c’entra e la povertà neppure. C’entrano le nostre scelte. E c’entrano alcuni tabù che, da donne, non vogliamo ammettere. Una contro inchiesta
"E allora, quando pensi di fare un figlio?”: la domanda a una giovane amica che ha superato i trent’anni, felicemente convivente e con un lavoro “quasi” sicuro viene spontanea. Sono evidentemente all’antica. La risposta, altrettanto immediata: “Figli? Non ho alcuna intenzione di farne” e, poi, perché non ci siano equivoci, la precisazione: “Non sono nei miei programmi, in futuro, forse” non mi coglie impreparata. Hanno risposto così tutte le giovani donne cui ho avuto l’ardire di porre la questione. Quando ho partorito mia figlia avevo ventinove anni, in sala parto mi è quasi venuto un colpo quando ho sentito che qualcuno mi definiva “primipara attempata”. Ma lo ero certamente se tenevo conto che mia madre aveva avuto me a diciannove anni e mia nonna aveva partorito mia madre a diciotto.
Adesso invece. Erano almeno dodici (le ho contate una per una) le donne dai trenta ai quarant’anni che mi avevano dato la stessa risposta. E che avevano manifestato un certo stupore per la mia attenzione a una vicenda così secondaria come una loro eventuale maternità. Avevamo tante altre cose interessanti di cui discutere!
Mi piacerebbe che Mario Draghi, che proprio è intervenuto agli Stati generali della natalità, ne conoscesse qualcuna. Che dicesse loro quel che ha sostenuto di fronte a una selezionata platea istituzionale. Dati alla mano il presidente del Consiglio si è mostrato preoccupato. Solo 404.000 nati nel 2020, età media degli italiani 47 anni, un paese che invecchia, che non investe sul futuro. Affermazioni e giudizi, i suoi, non privi di afflato etico, consapevolezza del ruolo dello stato. Perfino qualche accenno autocritico a ciò che non è stato fatto. “Per decidere di avere figli i giovani hanno bisogno di tre cose. Di un lavoro certo, una casa e un sistema di welfare e servizi per l’infanzia. In Italia purtroppo siamo indietro su tutte e tre le cose”, ha detto. Poi le promesse. Meno rituali del solito ma sempre promesse. Sarebbe bastato – mi sono chiesta – un discorso sicuramente onesto come il suo a produrre anche solo un piccolo ripensamento alle tante donne che figli non hanno intenzioni di averne? Credo proprio di no.
Forse qualcuna sarebbe stata solo più cauta. Non avrebbe risposto come ha risposto a me: “Non faccio figli perché non li voglio, la mia vita mi piace così”. Chi parla in pubblico si adegua alle ovvietà che, in modo più o meno accorato, la politica ripropone: la situazione economica punisce i giovani, la precarietà del lavoro rende più difficile una scelta che richiede margini di sicurezza, la maturità arriva più tardi, le madri nel nostro paese non sono abbastanza protette, non ci sono asili nido e servizi sociali, i figli costano ecc. ecc. ecc.
Per questo è utile che racconti io a Mario Draghi chi sono le ragazze che dovrebbero riprendere a fare figli. Perché di loro si tratta e non genericamente di “giovani”.
Le ragazze che io vedo e incontro non sono esseri umani piegati dalle difficoltà del vivere, costrette a sacrificare la natura materna alla legge di un mondo crudele, a una economia che, purtroppo, produce tanti beni ma sottrae loro il più prezioso. Donne, insomma, ancora una volta vittime cui viene impedito di raggiungere ciò che il cuore e la natura vorrebbero.
Le mie giovani amiche hanno spesso un lavoro fisso e, se non ce l’hanno, possono contare su una precarietà protetta dalla famiglia e dalla loro professionalità e competenza. Sono economicamente in grado di tirare su un bambino, e comunque hanno alle spalle chi sarebbe contento di aiutarle, a cominciare dai compagni che certo non appartengono alla categoria “i figli li fanno e li crescono le mamme”. Forse non saranno come i papà del nord Europa che dei bambini si occupano quanto le mamme, ma ne avrebbero più cura degli uomini delle precedenti generazioni.
Eppure della loro decisione appaiono convinte. Hanno fatto una precisa scelta di vita. E la dichiarano.
Il calo demografico è già rilevante da qualche tempo. Sono molti anni che l’Italia è il fanalino di coda dell’Europa.
Cosa vogliono le “cattive ragazze”. Hanno fatto i loro calcoli e rimangono ferme: un figlio è la fine della libertà che hanno e della felicità che vorrebbero raggiungere. Quindi procedono impavide. Le lotte del passato
Ma fino a qualche tempo fa se lei, presidente, avesse chiesto a una giovane donna se e quando avrebbe avuto un figlio, la risposta sarebbe stata più ambigua, più vicina ai cliché dei sociologi e degli statistici. E anche ad alcuni luoghi comuni che ho ritrovato, nel suo pur importante discorso. “Non ho un lavoro sicuro”, “lui non si è ancora sistemato”, “non possiamo pagare l’affitto di una casa più grande”. Il figlio non era negato ma rinviato a quando le difficoltà si sarebbero appianate. Quando quindi? Il tempo a disposizione nelle loro parole appariva già indefinito: “più in là”, “non c’è fretta”, “possiamo aspettare”. Ricordo ancora gli occhi spalancati di stupefazione di una mia amica che aveva 34 anni quando di fronte al suo sicuro e difensivo “c’è tempo”, risposi con una certa brutalità. “Certo, hai ancora circa ottantaquattro occasioni”. Le feci un rapido calcolo. Una donna ha tredici possibilità di rimanere incinta in un anno, questo fino a circa quarant’anni anni. Se si moltiplica tredici per sei , tanti erano gli anni che la separavano dai quaranta, poteva facilmente constatare che aveva appunto ottantaquattro possibilità. Certo poteva rimanere fertile fino a quarantuno e o quarantadue anni – la biologia non è precisa al millimetro – ma doveva anche tener conto che con l’avanzare degli anni la fertilità tende a ridursi.
Se ne stupì. Non ci aveva pensato. Non aveva realizzato che nel suo corpo c’era una finitezza. E questo mi aveva irritato e resa rude. Tuttavia mi fermai in tempo. Non dissi il seguito del mio pensiero. Non volevo essere come le tante donne antipatiche che avevano popolato la mia di giovinezza e che quando non volevo fare qualcosa che loro ritenevano assolutamente giusta dicevano “te ne pentirai”. Ma sapevo che per alcune di loro sarebbe arrivato il momento del “pentimento”, quando il figlio l’avrebbero cercato, ma sarebbe stato più difficile. Quando la biologia che avevano controllato in nome della libertà si sarebbe presa la rivincita. E il corpo che non aveva voluto figli si sarebbe accorto di non poterne avere.
Per questo con loro qualche volta mi irrito. La mia stizza (repressa) deriva dalla constatazione che anche loro soffrono di quel male tutto occidentale che nega il corpo, si nasconde i limiti che vengono dalla natura, l’incerto che comunque arriva, la materia di cui siamo formati.
Anche loro fanno parte della schiera dei tanti per cui i desideri non conoscono limiti e basta che qualcosa sia voluto perché sia ottenuto. La maternità è uno di questi: pronta a riapparire quando c’è il desiderio. Il corpo obbedisce, si adatta, la scienza soccorre, il progresso agevola. Non è così. Ci sono tempi, organi, cicli che non dipendono completamene dalla nostra volontà. Questo avrei voluto dire, ma non l’ho fatto. Non volevo neppure essere confusa con i tanti – anche lei presidente mi pare tentato – di definire questa scelta “individualista” o “egoista”.
Le mie giovani amiche, presidente Draghi, mi piacciono. Anche quando mi irritano. Mi piace quando difendono la loro libertà e non accettano di farsi imbrigliare. Quando finalmente rifiutano ogni ipocrisia affermando che un figlio le metterebbe in una sorta di custodia cautelare e loro non hanno nessuna voglia di rinunciare alla loro libertà, ai loro progetti. Un tempo affermazioni di questo tipo venivano solo o soprattutto da esponenti del sesso maschile. Ragazzi sicuri alcuni, Peter Pan altri, inseguiti da ragazze che volevano una relazione più stabile e anche, magari, a un certo punto un figlio.
Mi piace che apprezzino la vita che si sono costruite. Sono “cattive ragazze”, sono egoiste forse, pretendono, non si lasciano abbindolare dai buoni sentimenti. Hanno osservato bene le fregature subite dalle loro madri e dalle loro nonne. Non vogliono corde, anche amorevoli, che le leghino. Hanno spiccato il volo e va bene così.
Nel cielo del loro futuro lo spazio appare infinito, i sogni si possono avverare, i desideri realizzarsi. E per una donna – è vero – il sogno della libertà rimane il più grande. Appena raggiunto, sempre insidiato, in costante pericolo. Anche il figlio è un’insidia? Lo è, evidentemente, e fra le più pericolose.
Non lo vogliono perché sono responsabili e abituate a fare le cose come si deve. Prendi il lavoro. Per farlo bene si devono difendere ogni giorno, essere vigili, non abbassare mai la guardia. E’ possibile mantenere quel livello di attenzione con un neonato a cui cambiare un pannolino? Col bambino da andare a prendere a scuola? No, hanno fatto i loro calcoli e rimangono ferme: un figlio è la fine della libertà che hanno e della felicità che vorrebbero raggiungere. Quindi procedono impavide. E i rapporti con gli uomini? Anche in questo hanno le idee chiare. Non coltivano tante fantasie. Il sogno d’amore c’è sempre ma i loro compagni li vogliono affidabili, e stanno attente. Se ne fregano delle statistiche allarmanti. Ora – questo è il salto rispetto agli ultimi anni – non sentono neppure il bisogno di far finta di rinviare, non mediano con l’immagine angelicata e sofferente di madre mancata a causa delle condizioni economiche o per l’inefficienza dello stato sociale come hanno fatto qualche tempo fa. Sono certo che alcune accuse implicite nel suo discorso non le toccherebbero.
A me si rivolgono con sfida. “Non potrai certo dire niente tu che sei femminista, che hai sempre lottato per la libertà delle donne”.
Perché dovrei farlo? Ogni mia parola suonerebbe di colpevolizzazione, e di uomini e donne che assolvono a questo compito ce ne sono già tanti. C’è tutto un mondo che non vede l’ora di dire alle ragazze “è colpa vostra”. Lo conosco bene. L’ho visto all’opera alcuni decenni fa quando in tante abbiamo lottato per ottenere una legge sull’aborto che non punisse le donne ma accettasse la loro scelta. Anche allora non accettavamo l’obbligo alla maternità, non volevamo che la biologia interferisse con la libertà, che per noi donne ci fosse un destino segnato. Era una scelta che somiglia molto a quella delle mie “cattive ragazze”. Ma noi, pur di vincere, facemmo un compromesso con l’immaginario femminile prevalente nella società. Parlammo di donne povere e disperate che di figli ne avevano già tanti e non potevano permettersene un altro, di pericoli per la vita della madre, di giovani spezzate da un avvenimento non previsto e che erano costrette a privarsi del loro bambino, di aborto come dramma. Vero? Solo in parte. Perché in quel gesto estremo – comunque l’interruzione di gravidanza anche nelle situazioni migliori, e allora erano pessime, non è una passeggiata – evitammo di dire che la nostra era una ribellione contro la biologia, l’affermazione di una libertà. Questa parola la nominammo poco. C’era chi ci definiva assassine. Avevamo bisogno di alleati e capimmo che anche i progressisti, i difensori della legge, non avrebbero accettato di sostenerci solo in nome della libertà del corpo femminile. Per vincere tacemmo e ci adeguammo.
Loro invece non tacciono. Non temono di mostrarsi “cattive”. Dicono la verità e possono permetterselo perché la loro libertà è maggiore della nostra e ha già modificato i rapporti con l’altro sesso.
Le donne non ricorrono più all’aborto perché a quel dilemma neppure arrivano: l’errore si può evitare e viene evitato. Leggi non di protezione ma di promozione: lo stato e la società devono dimostrare alle “cattive ragazze”, e nei fatti, che la maternità non ridurrà la loro libertà, all’opposto la renderà più ricca, più forte e più autentica
Non ricorrono più all’aborto, e non perché c’è una legge ma perché a quel dilemma neppure arrivano. Lo hanno risolto all’origine. Nel rapporto con l’uomo non c’è più la subalternità di un tempo, la sessualità non passa più per la soggezione al maschile, l’errore si può evitare e viene evitato. Per questo le interruzioni di gravidanza in Italia (soprattutto quelle delle italiane) sono un numero irrisorio. Ne è stata eliminata la causa. E’ stata la libertà delle donne, non i movimenti per la vita, non i protettori della famiglia e degli angeli del focolare a ridurle così drasticamente.
La libertà dunque. E il suo rapporto con la maternità. Da questo, presidente Draghi, dobbiamo partire per capire. Le donne non vogliono diventare madri proprio perché sono più libere e non soggette all’autorità maschile. Dovremmo cominciare a dirlo con maggiore chiarezza. Non è individualismo, non egoismo. E’ difesa, ponderata e calcolata. Chiarezza di fronte ai tanti imbrogli.
Per capire il rapporto fra le donne e la maternità dobbiamo immaginare due piatti della bilancia. In uno c’è la libertà, nell’altro c’è la maternità. Nella vita non sono due entità astratte ma molto, molto concrete.
La libertà è fatta di lavoro, studio, affermazione, piacere, sogni di volare più in alto, competizione, desideri; la maternità è sacrificio, dedizioni agli altri, quando va bene, secondi e terzi posti, paure, ridimensionamento dei desideri e dei sogni.
La bilancia fino a qualche decennio fa – nella mia e nella sua generazione, presidente, si è mantenuta in un precario equilibrio perché la libertà possibile era limitata e le donne si erano assoggettate al doppio ruolo. Avevano studiato e, contrariamente alla generazione precedente, avevano sempre contemplato il lavoro come elemento essenziale della propria esistenza. Ma i loro compiti nella famiglia erano gli stessi. Se volevano un figlio, o se un figlio capitava, sapevano di dover “fare dei sacrifici”. Ed ecco la capacità di essere multitasking, di lottare su più fronti: l’azienda, i bambini, le relazioni familiari. Per questo sono state lodate dai politici e dai sociologi. Così piacerebbero ancora. Con la “doppia presenza”, in questo modo veniva e viene chiamata e la società e lo stato si assolvevano e mettevano da parte le loro mancanze. Le donne, poi, erano addirittura orgogliose di essere capaci di fare tutto. Alcune guardavano con sufficienza gli uomini pigri e viziati che sapevano dedicarsi solo al lavoro. Loro erano differenti. Esauste, prive di un momento solo per loro (e la libertà?) ma capaci di fare tutto. Potevano essere madri e lavoratrici. Che meraviglia!
Le “cattive ragazze” di oggi sono figlie e nipoti di quelle donne e hanno visto. Le hanno viste affaticarsi fra un lavoro spesso non interessante (perché, per fare carriera, occorre un tempo maschile) e il carrello del supermercato, le hanno osservate mentre erano divise fra le ambizioni e la famiglia, hanno assistito al ridimensionamento dei desideri e allo sgretolarsi dei sogni. Hanno visto. E nella loro mente hanno annotato.
E’ stato così che l’equilibrio si è rotto. Le “cattive ragazze” hanno preteso una libertà maggiore di quella delle loro madri, di sacrifici e dedizione non vogliono sentirne parlare e il secondo piatto della bilancia, quello che conteneva l’accettazione dei sacrifici e dell’incerto è saltato in aria.
C’è un modo per far tornare i due piatti in equilibrio? Di rimettere in pari libertà e maternità? Di aggiungere al secondo qualcosa che non sia solo fatica e sacrificio? Nel quale l’amore, questa parola che si ha pudore a pronunciare perché troppa libertà femminile è stata sacrificata in suo nome, riesca a ricomporre l’equilibrio? Certo che c’è, ma è quanto di più lontano si può immaginare in una società come quella italiana (lo ha ammesso anche lei nel suo discorso ) che ha sempre affidato alle donne, e solo alle donne, l’onere della maternità e che è pronta a raccontare e a raccontarsi le più grandi bugie pur di non rompere l’immagine sacrificale della donna. Dare alla maternità un ruolo sociale fondante e lasciare “alle cattive ragazze” tutta la loro libertà e, se la vogliono, altra ancora, implica una rivoluzione culturale e materiale. Ci vuole una considerazione che si esprima anche in leggi non di protezione ma di promozione. Ci vuole un rovesciamento di mentalità. Ci vuole una sfida positiva alla nuova libertà femminile. Ci vogliono soldi e capacità di spenderli in alcune direzioni e non altre. Ci vuole un riconoscimento potente che diventi il centro di una nuova dimensione etica. Parole grosse? Sì. Ma necessarie. Lo stato e la società devono dimostrare alle “cattive ragazze”, e nei fatti, che la maternità non ridurrà la loro libertà, all’opposto la renderà più ricca, più forte e più autentica.
Non credo che avverrà. La società degli uomini è abituata a sottovalutare le donne. Non è sufficientemente allarmata. Preferisce rassicurarsi invece che aprire gli occhi su quello che sta accadendo. Rimpiangere il passato invece che guardare a un futuro che è già cominciato e intervenire per modificarlo.
Che cosa può avvenire, e in parte sta già avvenendo, in un mondo in cui la maternità non è più voluta perché contrapposta alla libertà? E in cui, inevitabilmente, se non si vuole andare alla estinzione della specie, i figli si fanno per altre vie? Mi permetto di consigliare una lettura: “The Farm”, la fabbrica dei bambini di Joanne Ramos in Italia edito da Ponte alle Grazie. Non c’è nulla di inverosimile. Racconta di quello che già avviene in una società ricca dove i bambini vengono prodotti da altri, da un’azienda ad hoc in modo da non disturbare con la gestazione e la cura la vita di madri e padri.
E poi di meditare su “Storia di un’ancella”, romanzo distopico di Margaret Atwood. Un mondo futuro in cui la funzione materna è separata e affidata a donne che adempiono a questo compito. Schiave della produzione di figli che si affiancano a donne che non possono adempiere a un compito così basso perché mogli. E uomini saldamente al potere, in una società autoritaria e repressiva che hanno diviso rigidamente le donne in madri, mogli e serve.
Non sono solo romanzi. Non è solo distopia. L’utero in affitto, lo sfruttamento di donne povere, la divisione fra mogli e madri, la sottomissione delle seconde al potere della ricchezza sono dietro l’angolo. In alcune parti del mondo già realtà diffusa.
E le “cattive ragazze”? Non hanno nessuna responsabilità di fronte a questo possibile futuro? Loro che sono più forti, più responsabili, più sicure di chi le ha precedute? Sì, ce l’hanno anche loro una parte di responsabilità.
La libertà, diceva un cantante che durante la mia giovinezza era tanto amato “non è uno spazio libero”. Non è conservazione di un futuro immaginato che si contrappone a un passato che non piace. E’ fatto anche di audacia, di capacità di rischio e di sfida.
Invece spesso sono poco coraggiose. Deluse dalla politica non la inchiodano alle sue responsabilità, non pretendono, non urlano. Si ritirano in quel che il mondo permette senza accorgersi che anche la loro libertà è comunque limitata, di seconda mano. E’ solo quella che la società degli uomini è disposta ad accordare a una minoranza delle donne del pianeta, in una ristrutturazione del rapporto fra i sessi che dominiamo ancora poco. E che, invece, dovremmo prendere più saldamente in mano. Il problema delle donne della mia e della vostra generazione è l’incapacità di rischiare di sbagliare. Gli uomini sono più forti perché vanno avanti anche se commettono errori. Poi si scusano, li correggono o insistono, comunque non si fermano.
Anche a voi un consiglio di lettura: “L’uomo disincarnato. Dal corpo carnale al corpo fabbricato”. L’ha scritto Sylviane Agacinskie in Italia è stato edito da Neri Pozza. La filosofa francese si interroga e spiega il desiderio tutto moderno di essere liberati dalla carne. Solo qualche rigo di citazione.
“Si potrebbe… avanzare l’ipotesi che il desiderio di essere ‘liberati dalla carne’ – dalla natura, dall’animalità, dalla vita e quindi dalla morte – non sia altro che l’espressione di un desiderio maschile, il desiderio di liberarsi da questa carne femminilizzata. Questo non impedisce ad alcune donne di interiorizzare tale desiderio, di identificarsi con questo soggetto maschile ed etereo, e di rifiutare anch’esse la propria natura carnale.”
Sta accadendo questo?