Le altre sberle di successione
La partita che Pd e Lega hanno iniziato a giocare sul Quirinale ci dice molto su come stanno cambiando gli equilibri in maggioranza. Subalternità, furbate, guerre e la mina vagante: il M5s. Una guida
L’elemento forse più interessante del vivace dibattito politico che negli ultimi giorni si è andato a innescare rispetto al tema della successione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica non riguarda ciò che il valzer delle candidature ci dice sul futuro del Quirinale (chi entra al conclave da Papa, si sa, di solito esce cardinale) ma riguarda piuttosto ciò che questo valzer di nomi ci dice sul presente della politica italiana.
La storia ormai la conoscete. Il centrodestra ha deciso di prepararsi all’appuntamento del febbraio 2022 (politicamente, tra una vita) provando per quanto possibile a intestarsi il passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. E le posizioni ormai sono chiare e alla luce del sole. Matteo Salvini vuole Draghi al Quirinale per far durare il meno possibile le larghe intese (ragionamento molto sofisticato: Draghi va al Colle e poi o si vota o la Lega esce dalla maggioranza). Giorgia Meloni per la stessa ragione vuole Draghi al Quirinale (Meloni non lo ha ancora detto pubblicamente, ma è quello che ha detto ai colonnelli del suo partito). Silvio Berlusconi vuole Draghi al Quirinale per una ragione diversa (mettere in sicurezza l’Italia non per i prossimi due anni, fino al termine della legislatura, ma per i prossimi sette anni: il ministro Renato Brunetta ha detto proprio al Foglio qualche giorno fa che con un Draghi al Quirinale Forza Italia sarebbe favorevole a continuare l’esperienza delle larghe intese europeiste).
Dall’altra parte, il centrosinistra, inteso come ciò che resta della vecchia maggioranza rossogialla, ha scelto di manifestare in modo esplicito la sua preferenza per uno schema di gioco diverso e nel Pd (non solo il Matteo Ricci che trovate oggi sul Foglio) ormai c’è chi lo dice in modo esplicito: vogliamo il Mattarella bis. Il ragionamento del Pd non è legato solo alla volontà di non perdere a Palazzo Chigi il contributo prezioso che Draghi potrà dare per mettere sui giusti binari le riforme del Pnrr. E non è legato solo alla paura di andare a votare nel 2022 nel caso in cui Draghi dovesse arrivare al Quirinale con il sostegno decisivo delle destre (tema comunque che esiste, della serie volare altissimo). Ma è legato a qualcosa di più interessante che ha a che fare un problema che un ministro del Pd, sotto la garanzia dell’anonimato, sintetizza così al Foglio: “Draghi è un fuoriclasse assoluto, ma la politica è fatta anche di alleanze e se il centrosinistra vuole avere una qualche speranza di essere competitivo alle prossime elezioni non può permettersi di dividersi dal M5s quando si tratterà di votare per il presidente della Repubblica. E la verità è che allo stato attuale sarà difficile che Draghi venga votato come capo dello stato da un partito come il M5s che negli ultimi mesi ha avuto l’impressione di essere preso a schiaffi dal presidente del Consiglio”.
La fotografia in movimento dei numerosi intrecci che compongono la trama quirinalizia ci è dunque utile non per capire cosa succederà a febbraio, quando scadrà il settennato di Sergio Mattarella, ma per provare a capire cosa sta succedendo oggi all’interno della maggioranza che sostiene Mario Draghi. Il primo elemento interessante è la sofferenza simmetrica con cui il Pd e la Lega vivono la stagione del governo Draghi. La sofferenza della Lega, più scontata, ieri maltrattata da Draghhi sulla flat tax, si traduce in un tentativo di trovare il prima possibile un pretesto per poter mollare questa maggioranza e far sì che l’esperienza del governo Draghi possa essere niente più che una piccola parentesi politica (in questa logica il Quirinale non serve per blindare l’Italia, ma per provare ad andare a votare con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale del 2023: si vola altissimo). La sofferenza del Pd (il cui leader ieri è stato sonoramente schiaffeggiato da Draghi sulla tassa di successione) si traduce invece in un tentativo di usare la partita del Quirinale per evitare che la legislatura si possa concludere anzitempo e per continuare a dare l’impressione al M5s che la vecchia maggioranza rossogialla continuerà a esistere nonostante la parentesi di Draghi (e dunque, se è vero che Draghi, al momento, è il candidato delle destre al Quirinale, miracolo che poteva riuscire solo al Pd, è altrettanto vero che essere contro questa opzione significa offrire al maltrattato M5s un ramoscello d’ulivo).
Delle due sofferenze simmetriche, quella maggiormente significativa riguarda senza dubbio il Partito democratico e il dato che si presenta in modo cristallino di fronte agli occhi degli osservatori è questo ed è piuttosto clamoroso: essere disposti a regalare Draghi alla destra di Salvini per non mettere in discussione la propria granitica alleanza con il M5s. In un contesto maggioritario, come è il contesto attuale, è comprensibile che il Pd non voglia rinunciare all’alleanza con il M5s, ma ciò che risulta meno comprensibile è la ragione per cui il Partito democratico, ancora oggi, a fronte di uno spappolamento del M5s, di un crollo elettorale del M5s, di una crisi senza fine del M5s, non riesca a trovare un modo per danzare sul palcoscenico della politica senza mostrare, di fronte al proprio alleato, segni di subalternità. Si potrebbe dire che molti di questi temi si proiettano in un futuro ancora lontano e coincidono con il famoso tentativo di mettere il carro davanti ai buoi. Ma la verità è diversa e la partita anticipata del Quirinale – anticipata non per colpa dei retroscenisti a caccia di nomi, ma a causa della politica, che in modo inusuale i nomi ha scelto di farli uscire dai retroscena – è lì a mostrarci con evidenza un problema di fronte al quale Draghi potrebbe trovarsi nei prossimi mesi. Quando il presidente del Consiglio dovrà fare i conti con le debolezze simmetriche dei partiti che rischiano inevitabilmente di rendere il percorso riformatore del governo più complicato del previsto. E quando risulterà evidente che la partita del Quirinale potrebbe avere sulla maggioranza – specie sul M5s, destinato a diventare per Draghi una spina nel fianco non meno dolorosa rispetto a quella della Lega – l’effetto opposto a quello avuto dall’arrivo di Draghi: non allargare le intese, ma frantumarle. E per la prima volta dall’inizio della stagione Draghi, i primi scricchiolii, seppur in lontananza, iniziano a sentirsi.