Perché il dissesto di Napoli è un problema politico nazionale
La rivoluzione di de Magistris non ha funzionato e molti problemi non sono stati risolti. Dalle tristi vicende di bilancio al rilancio del Mezzogiorno, e al Pnrr: questioni locali che vanno ben oltre la città
"Abbiamo scassato”, ripetuto in modo tambureggiante a favore della folla in delirio, fu il timbro che Luigi de Magistris appose alla propria vittoria elettorale nella prima trionfante uscita pubblica. Un timbro che suggerisce ora il giusto epitaffio, l’opportuna iscrizione sul sepolcro di una stagione che termina, tra la delusione e la confusione. La rivoluzione arancione di de Magistris non ha rivoluzionato un bel niente. Non ha consegnato progressi rispetto alle delusioni suscitate dalle malinconiche giunte guidate da Rosa Russo Iervolino, né è riuscita a rinvigorire i fasti della breve, fortunata stagione del cosiddetto “Rinascimento napoletano”, di cui Antonio Bassolino fu l’interprete.
Dopo undici rimpasti di governo, volteggi brevi, e neppure intensi, di donne e uomini che solo per un attimo hanno potuto godere della luce della ribalta, de Magistris è rimasto solo. Si tratta certo di un uomo tenace, che non si è rivelato, però, particolarmente adeguato al ruolo. Senza soldi non si cantano messe, si dirà. Certo. Ma i soldi per le messe bisogna anche essere in grado di trovarli. Quando de Magistris si è insediato, nel 2011, la situazione del bilancio comunale era già notevolmente compromessa. Il Comune era sommerso dai debiti, adeguatamente nascosti sotto il tappeto dei crediti che non sarebbero mai stati riscossi, o posti fuori bilancio. Senza contare la possibilità che si era aperta, ed era stata adeguatamente sfruttata negli anni, di scaricare sui bilanci delle partecipate – utilizzate per sfamare molte feroci clientele – una parte degli oneri della mala gestione.
Un’opzione a disposizione di de Magistris prevedeva la dichiarazione di dissesto. Si decise diversamente; anche per nobili motivazioni. Quella decisione ha dato però la stura a un’agonia, prodotta dalle tossine del cosiddetto pre-dissesto – uno stato comatoso che precede la morte gestionale – che ha paralizzato la città e le sue aspirazioni. E mentre il sindaco esibiva una certa propensione alla rissa con i livelli di governo superiori da cui solo poteva venire ausilio (celebri le polemiche con Matteo Renzi), abusava di toni tipicamente populisti alludenti a nemici del popolo e della rivoluzione, disperdeva energie su battaglie francamente minori… ecco, mentre tutto questo avveniva, la città andava a picco. Inghiottita dai flutti, nella sostanziale indifferenza delle opposizioni. Non in grado neppure di opporre a de Magistris, al termine del primo mandato, contendenti di un qualche spessore.
Com’è ovvio, queste vicende non riguardano solo Napoli e i napoletani. Così come le vicende romane, che hanno costretto il governo nazionale a ripianare 12 miliardi di euro di debiti della capitale, non riguardano solo Roma e i romani. In primo luogo perché Napoli è la città più importante del Mezzogiorno, e il rilancio del Mezzogiorno, cui aspira il Piano nazionale di ripresa e resilienza, deve necessariamente passare da Napoli. In secondo luogo perché le tristi vicende che si accaniscono sul bilancio comunale napoletano sono simili a quelle egualmente tristi che travagliano i bilanci di altre città italiane. E infatti la recente sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittime alcune disposizioni che consentivano una certa agilità nello spalmare i debiti nel tempo, rischia di provocare il dissesto di una quota significativa di comuni.
In questa situazione ben poco edificante si è aperta la battaglia per la successione a de Magistris. E mentre scorrono sul palco candidature francamente velleitarie o anacronistiche, ecco un fatto nuovo. Gaetano Manfredi interviene pubblicamente, spiegando perché il prossimo sindaco rischia di essere null’altro che un commissario liquidatore. Evoca il dissesto con certezza e chiarisce che senza un intervento legislativo di riequilibrio, e un patto civico volto a veicolare nell’amministrazione della città le migliori energie di cui essa dispone, anche il suo impegno non sarebbe utile. Al netto del brusìo di fondo che ha accompagnato la sua presa di posizione, l’intervento ha sortito almeno tre conseguenze (oltre a fornire agli elettori un criterio per verificare se l’alleanza tra Partito democratico e Movimento 5 stelle possa essere qualcosa di diverso da una conveniente macchinazione a fini elettorali).
La prima è stata quella di bloccare definitivamente l’incedere di una narrazione alternativa, secondo cui Napoli sarebbe oppressa dai debiti per fatti ancestrali di cui si è quasi peraltro persa la memoria. La seconda conseguenza è stata quella di scuotere il governo affinché valuti una situazione che, al momento, sarebbe più comodo trascurare. Un eventuale salvataggio di Napoli potrebbe infatti dare l’avvio a una messe di richieste da parte di altri enti fortemente indebitati, in un frangente in cui il debito visibile dei comuni è di circa 40 miliardi di euro. La terza conseguenza dell’intervento di Manfredi è stata quella di esercitare pressione sui candidati già pronti a sfilare, costringendoli a chiarire perché ciò che rappresenta un ostacolo alla sua candidatura, non costituisca, in effetti, un impedimento altrettanto severo alla loro. E infatti si sono diffuse, con immediatezza, commoventi quanto irrealistiche dichiarazioni, che suggeriscono di gettare arditamente il cuore al di là dell’ostacolo. Senza alcuna speranza di ritrovarlo, il cuore – c’è da scommettere – una volta gettato via così avventatamente.
Sergio Beraldo, professore di economia politica, Università di Napoli Federico II