Sovranisti per Calenda: il candidato che il centrodestra non ha il coraggio di scegliere
Il leader di Azione dovrebbe rompere gli indugi e rivolgersi a al popolo orfano degli elettori del centrodestra. Anche perché chi vota Gualtieri, in realtà vota la Raggi. E viceversa
Carlo Calenda, alla fine, è il nuovo candidato del centrodestra a sindaco di Roma. No, non è uno scoop clamoroso, ma solo la presa d’atto che il campo largo di liberali, conservatori, moderati e pure sovranisti, qualunque cosa voglia dire il termine ormai, è orfano di padre e madre di un centrodestra paralizzato masochisticamente e ripiegato nella paura di dover decidere, vincere e amministrare la città eterna, la città più pazza del mondo. E così, gli piaccia o non gli piaccia doverlo ammettere, Calenda è ad oggi l’unico candidato appetibile per chi rifiuta assistenzialismo pernicioso, steccati ideologici che finiscano per regalare bonus, sussidi, patrimonio, ad associazioni varie.
L’unico candidato che ha una qualche considerazione di mercato, proprietà privata, valore, merito e, udite udite, competenza. Sul versante del libero mercato e di queste caratteristiche ci sarebbe anche Andrea Bernaudo di Liberisti italiani, ma sinceramente avrebbe più senso non dividersi e non frammentarsi su questo, e si potrebbe pensare ad una gioiosa alleanza per non disperdere voti. L’unico candidato, Calenda, che, avendo organizzato un tavolo per Roma quando era inquilino e responsabile del Mise, potrebbe dir qualcosa in tema di selezione della classe dirigente capitolina, in vista anche, ma non solo, del Giubileo del 2025, il quale necessiterà di sapiente gestione fondi, indirizzo politico e amministrativo, visione complessiva, non bastando le ciclabili, buone al massimo per pellegrini medievali.
D’altronde dopo che la candidatura di Zingaretti è stata rimbrottata e fatta abortire, per non urtare la suscettibilità sempre più tirannica dei cinquestelle, un movimento/partito che nonostante il tracollo continua a tiranneggiare la forma politica e il dibattito, appare chiaro quale scenario si stia delineando sul fronte progressista: una riedizione urbana di redditi di cittadinanza, gestione creativa delle società partecipate, influencer stipendiati come consulenti per ravvivare a mezzo filtri Instagram la declinante immagine della Capitale. In pratica, tutto l’incubo vissuto negli ultimi cinque anni, aggravato dal passare del tempo e dal peggioramento della situazione.
Ed allora viene naturale, spontaneo, per tutti gli altri, quelli che non ne possono più di stazioni metro chiuse o con scale mobili bloccate, di strade sporche, di cinghiali in gita turistica, di bus modello ‘Inferno di cristallo’, di servizi sempre più cadenti e scadenti, guardare con una qualche fiducia sull’altro versante. E qui è iniziato, e pure finito subito, il problema. Se la serenità è il frutto della rassegnazione all’incertezza, come scriveva il buon Nicolás Gómez Dávila, potremmo dire che il centrodestra, a quanto riportano le cronache politiche, dovrebbe aver proprio raggiunto la pace dei sensi e il massimo livello zen della serafica contemplazione del nulla cosmico.
E poco importa se al posto di un placido e sgargiante giardino nipponico, colmo di carpe koi e pietruzze, si staglia la fisionomia amazzonica dei giardini non curati, con gabbiani a picco modello Hitchcock e cinghiali sempre più padroni della città, tra volute di fumo nerastre anche conosciute come mezzi pubblici e piloni, livello torre di Babele, di spazzatura debordante dal ciglio al centro carreggiata delle strade. L’incapacità, o la mancanza di volontà, di individuare un candidato a sindaco di Roma da parte del centrodestra, disperso in un laocoontico disegno di faide intrecciate, duelli tribali, antipatie incrociate, sta srotolando il tappeto rosso del trionfo, incredibile ma a questo punto non più tanto inaspettato, della Raggi, confermata sull’apice dei colli capitolini per la disperazione di un elettorato stanco, sfiduciato, spossato e che pure non riesce a capacitarsi del masochismo inaudito del centrodestra.
L’astensionismo rischia di divenire la condanna e il grimaldello della conferma della attuale sindaca che da cinque anni promette, enuncia progetti, e di ciclabile in ciclabile vede la città sprofondare sempre più in basso. Ed allora, preso atto che il centrodestra candiderà un qualche signor nessuno, certamente rispettabile come nome e curriculum ma dal richiamo elettoralistico pari a zero, detto che stanno arrivando al pettine tutti i nodi irrisolti della mancanza di una vera classe dirigente di Lega e Fratelli d’Italia, due partiti che fatte salve alcune eccezioni a Roma sono improponibili, Calenda dovrebbe rompere gli indugi, mollare gli ormeggi e iniziare a rivolgersi in maniera sempre più nitida a questo vasto popolo orfano.
Ribadisco; a questo popolo, a questa area elettorale, a queste sensibilità, non a quei partiti.
D’altronde è una elezione cittadina, di amministrazione attiva, di urgenze e di bisogni primari, non una crociata ideologica: nessuno agogna veder Calenda trasformato nella versione ‘buona’ della Meloni o di Salvini, ma più semplicemente, lasciato al suo destino il Pd sempre più grillinizzato, si spererebbe di sentirlo proporre una narrazione a più ampio spettro e a raggio largo, dimenticandosi per via le punzecchiature del Partito democratico, pronto da tempo, in caso di ballottaggio, al matrimonio di interesse. Perché è chiaro che chi vota Gualtieri, in realtà vota la Raggi. E viceversa.
E già questo sarebbe un buon punto di partenza. Ma il miglior approdo sarebbe il parlare la lingua che il centrodestra su Roma non è mai stato in grado di parlare, quella della efficienza amministrativa e della conoscenza dei procedimenti, del sapere scegliere gli uomini giusti, e giusti per le concrete esigenze del momento, non per affiliazioni tribali, del funzionamento reale e ottimale dei servizi pubblici cittadini, del libero mercato, della mancanza di protezionismo economico e sociale, della tutela della proprietà privata, del superamento delle rendite di posizione sindacali, partitiche, agnatizie, incrostate nel fondo della amministrazione capitolina e che ne costituiscono l’enorme zavorra.