Sulla semplificazione ci si gioca tutto: Draghi lo spieghi al paese
Le parole che servono al presidente del Consiglio per una deregulation bestiale
Ora hanno nascosto per un paio di giorni il decreto “Semplificazioni”, dicendo che “non è ancora maturo”. Intanto i giornali e le televisioni costruiscono la loro tela di in-e-disinformazione, anche indotta dall’assenza di notizie certificate e di una linea chiara e autorevole; i sindacati innestano la baionetta dello sciopero generale diffondendo il sospetto di un’operazione di liberalizzazione che può colpire gli interessi organizzati delle forze del lavoro; la borghesia industriale fa quello che sa fare, comunicati stampa; i partiti della maggioranza di dis-e-unità nazionale prendono possesso del loro posto al fronte della rappresentanza di interessi che spesso nemmeno più conoscono con la solita chiacchiera destra-sinistra; l’opinione pubblica è indotta a dividersi su una linea di credulità antimafiosa, a pensare cioè che si stia svolgendo una battaglia obliqua in favore di forze oscure della criminalità pronte a mettere le mani sulla grande fetta di torta degli investimenti prossimi venturi, il solito caso banale di savianismo. In queste circostanze può anche essere prudente parlare di immaturità del decreto, rinviare, troncare, sopire. Ma fino a un certo punto.
Non ho studiato alla scuola economica di Chicago, ma credo di sapere un paio di cosette: che la deregulation è al cuore dello sviluppo inaudito e dell’arricchimento dell’umanità contemporanea globalizzata per via delle politiche e delle tecnologie, e che la sua partenza negli anni Settanta (con Carter, poi con Reagan) ha letteralmente cambiato la faccia del mondo, e decisamente in meglio, per i consumatori, per i cittadini, per i lavoratori, per i poveri e per il sistema delle imprese industriali e di servizio, per non parlare del libero commercio internazionale; credo anche di sapere che i suoi guasti o inconvenienti sono emersi, sono stati in parte sanati con misure di ri-regolamentazione acconce, e che spenta la passione ideologica della grande battaglia intorno a un mondo post-socialista ora è in campo la deregolamentazione come problema realistico e concreto, tenendo conto del ruolo dello stato che nessuno nega e della questione ambientale che è importante al di là dell’enfasi che la deforma e la ideologizza.
Credo sopra tutto di sapere che l’Italia non ha un tasso di produttività soddisfacente o anche solo accettabile da almeno tre decenni; che la penuria di investimenti, e in particolare di investimenti dall’estero, è una condanna pesantissima per tutti noi prima che per i mercati; che questo paese, questa pubblica amministrazione, l’insieme delle stazioni appaltanti opere cruciali per l’assetto del paese, insomma i poteri pubblici, nessuno è mai stato in grado di spiegare per quale ragione non riusciamo a spendere produttivamente risorse e investimenti minimi, che l’Europa nel tempo ha stanziato per il nostro riequilibrio e che nella maggior parte dei casi sono rimaste congelate e infine sono morte all’economia e allo sviluppo.
Ora, senza scomodare il colosso di Rodi, sempre tirato in ballo col latinorum dei cretini, c’è un grande salto da fare. Gli investimenti europei e italiani sono una massa molto consistente, senza precedenti, hanno un valore politico gigantesco che riguarda l’Italia e anche l’Unione, e sono collegati a scadenze precise e a riforme non rinviabili della giustizia, del fisco e della burocrazia: il salto è ora, è qui, è adesso che bisogna impostare gli strumenti di un modo diverso e opposto, rispetto al passato, di considerare la spesa pubblica, con uno stato impegnato fino al collo e fino al collo indebitato, e con un’eredità antica di controlli, di supervisioni, di blocchi, di varianti burocratiche e amministrative di ogni genere che ostacolano la spesa produttiva e lo sviluppo conseguente. Non si sa se Draghi andrà al Quirinale o se riuscirà il miracolo di consentirgli credibilmente anche in terra elettorale di guidare con serietà e coesione ed efficacia una sgangherata maggioranza di unità nazionale che non ha, come le ebbe in Germania, basi solide in una classe dirigente omogenea: nessuno lo sa. Ma tutti sanno che niente di buono verrà dal Pnrr, nemmeno uno straccio di “dote” per la Next Generation Eu, se non si stravolge con la massima radicalità l’abitudine a strisciare e fare retromarcia dei grandi e piccoli apparati dai quali dipende il funzionamento di una colossale macchina di investimenti.
I mafiosi vanno individuati sulla base di sospetti indiziari di reato dalla magistratura (Dio sa come è ridotta) e allontanati in origine con una politica seria delle autorità e delle banche dati; i diritti dei lavoratori sono sacri, ma l’esistenza di investimenti che producono reddito e trasformazione sono il presupposto essenziale dell’esistenza di un lavoro garantito; e al posto di micragnose risse sul codice degli appalti, sul controllo ambientale, sul massimo ribasso, con la solita rincorsa agli ideologismi, ci vuole una linea chiara del governo che comunque può, sotto la spinta di Draghi, impostare almeno gli strumenti fondamentali, come hanno scritto nei libroni del Pnrr, per evitare che l’Italia si incagli nella bonanza europea e la trasformi in miseria europea, e proceda invece spedita nel percorso di allineamento deregolamentato a standard accettabili di efficienza, concorrenza e produttività. Presidente Draghi, parli chiaro e dica al paese, non con una battuta di conferenza stampa, che sulla “semplificazione” ci si gioca tutto.