Draghi e dragoni

La Raggi ha sfrattato la Cina dal Campidoglio?

Alla presentazione del formidabile progetto “Roma Smart City 2030” di ieri mancavano le aziende cinesi. Strano, visto che i Cinque stelle nella capitale le sostengono da anni

Giulia Pompili

Dalle telecamere intelligenti alle sedi delle aziende di telecomunicazioni. La giunta credeva che Pechino avrebbe potuto investire nella Capitale senza chiedere conto dei risultati. L'imprenditoria non funziona così

Ieri la sindaca di Roma Virginia Raggi, accompagnata dal suo principale sponsor, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ha presentato all'Auditorium il formidabile progetto “Roma Smart City 2030”. Come dicono spesso gli analisti che si occupano di connettività, “smart city” è ormai diventata un'espressione-contenitore che si usava un decennio fa: i progetti di “città intelligenti” hanno dimostrato di essere soprattutto slogan politici che hanno poco a che fare con l'effettiva realizzazione di un piano razionale di urbanistica, e sono emersi molti dubbi e criticità sulle nuove tecnologie applicate al controllo urbano (leggere, per esempio, “‘Smart’ Cities Are Surveilled Cities” di Robert Muggah e Greg Walton, qui).

 

Ma al di là del dibattito internazionale, l'ambizioso progetto di Raggi, parte fondamentale della sua campagna elettorale per vincere un secondo mandato da sindaco di Roma, sembra ancora più fragile se confrontato con la difficoltà che ha la capitale d'Italia di essere anche solo lontanamente competitiva con altre realtà europee o globali: dal servizio pubblico al sistema infrastrutturale tradizionale fino alla raccolta dei rifiuti

 

Raggi, però, vuole fare di Roma una smart city, qualunque cosa voglia dire. E vuole farlo in tempo “per il Giubileo 2025 e la candidatura a Expo 2030” (in realtà, il prossimo “grande evento” di cui la giunta parla pochissimo sarebbe il G20 del 30-31 ottobre: “La Capitale d'Italia sarà all'altezza dell'importante evento e delle grandi sfide che il mondo ha di fronte”, aveva tuittato la Raggi dopo l'annuncio di Giuseppe Conte, e chissà come se la caverà la città, tra sicurezza e viabilità, probabilmente a pochissimi giorni dalle comunali).

 

Virginia Raggi e Luigi Di Maio ieri al "Roma smart city 2030" all’Auditorium, senza Cina (LaPresse)

 

La passione di Raggi per le “smart city” ha origini lontane, e non è esattamente cresciuta al Campidoglio, più probabilmente suggerita dagli ormai vecchi amici della giunta. Perché all'evento all'Auditorium di ieri, infatti, c'era un grande assente: le aziende cinesi. L'influenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi deve aver fatto fare marcia indietro ai 5 stelle sull'amicizia con Pechino, lo ha sottolineato più volte Luigi Di Maio ed evidentemente anche al comune di Roma qualcosa sta cambiando.

 

Eppure, fino a pochi mesi fa, la giunta Raggi presenziava e promuoveva praticamente tutti gli eventi delle più grandi compagnie del Dragone. Huawei in particolare. Quando non poteva un rappresentante grillino del governo, ecco che arrivava Virginia o qualcuno del suo staff.

 

Dopo un viaggio di una delegazione di Roma Capitale nell'agosto del 2018, che andò “in missione” in Cina per studiare “il miglioramento della qualità di vita nelle aree urbane”, iniziò un progetto di collaborazione con la città cinese di Yantai proprio per lo sviluppo delle smart city. Progetti di cui oggi, ovviamente, non si sa più niente. Nel settembre del 2018 l'allora vicepremier e ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio sedeva accanto a Virginia Raggi al ”Huawei 5G Summit” alla Camera dei Deputati. La sindaca diceva: "“Il 5G è strategico per il cambiamento dell’amministrazione e della vita dei cittadini romani”. Sappiamo com'è andata a finire sul 5G alle telco cinesi. Ma non c'è solo la diplomazia pubblica.

 

Nel periodo d'amore tra comune di Roma e Cina sono stati fatti anche parecchi accordi. All'inizio del 2019, per esempio, Raggi celebrava un accordo con il colosso delle telecomunicazioni cinesi per istallare videocamere di sorveglianza nei luoghi pubblici, accordo poi smentito dallo stesso governo giallo verde poco dopo (“Nessun accordo con Huawei”). Qualche mese prima Huawei, nel mezzo della bufera per le accuse dell'America di Trump riguardo alla sicurezza, diventava il title sponsor della mezza maratona Roma-Ostia, un evento sportivo molto importante della Capitale, che da allora si chiama “Huawei Roma-Ostia”.

 

 Luigi Di Maio e Thomas Miao (ex ad Huawei Italia) al Huawei 5G Summit del 2018 (LaPresse)

 

Nell'ottobre del 2019, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, braccio destro di Di Maio, avrebbe dovuto partecipare all'inaugurazione dei nuovi uffici di Huawei Italia – che prometteva decine di posti di lavoro e milioni d'investimenti, e non si son mai visti né l'una né gli altri. Di Stefano, su consiglio dei funzionari della Farnesina, decise all'ultimo di evitare, e al suo posto a tagliare il nastro era andata Virginia Raggi Era un atto riparatorio: qualche settimana prima Huawei aveva invitato Raggi a presenziare lo “Smart City Tour” di Huawei, che faceva tappa a Roma. In quei giorni il dipartimento di stato americano, però, diffondeva la sua posizione ufficiale sulla faccenda: “Con il pretesto di progetti di sviluppo cosiddetti 'smart city', Huawei e ZTE esportano in tutto il mondo gli stessi strumenti orwelliani che forniscono al Partito comunista cinese per sorvegliare le persone”.  Raggi aveva disertato.

 

E ha disertato pure l'ultimo grande evento, l'inaugurazione del Cyber Security Transparency Centre di Huawei a Roma a fine marzo. Al suo posto è arrivato inaspettato Max Bugani, capo dello staff della sindaca, che ha ringraziato “tantissimo” Huawei per “quello che sta facendo per Roma”. 

 

Ieri all'Auditorium non c'era traccia di aziende cinesi. Con Draghi a Palazzo Chigi, la storia d'amore tra i 5 stelle e Pechino è forse al capolinea. Per Raggi è un problema, e infatti ha chiesto la collaborazione – i soldi – delle aziende italiane. Il problema è proprio questo: la Cina mette i soldi su qualunque cosa finché ha un vantaggi di tipo politico, e cioè d'immagine e propaganda, oppure strategico, cioè pagando infrastrutture che poi restano sue, come fa nei paesi del terzo mondo. Tutte le altre aziende non cinesi, per investire a Roma, vogliono risultati. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.