PIù mercato, meno veti
Perché lasciare la politica lontana dal grande risiko delle banche
Cimbri si muove e costringe Unicredit a una scelta. La partita Calta-Del Vecchio, la nuova galassia del nord, Generali e la seconda chance per Draghi. L’altra battaglia da sballo, oltre le nomine
Nell’appassionante mondo delle banche, l’espressione “terzo polo” è un’espressione che sulle pagine economiche dei giornali ricorre ormai da anni con una discreta continuità (più o meno con la stessa continuità con cui discutiamo da anni del terzo polo della politica) e dai tempi delle grandi fusioni che hanno dato vita ai colossi di Intesa Sanpaolo e di UniCredit non c’è stata una sola stagione politica che non abbia fatto i conti con il tentativo di dar vita a un nuovo polo capace di posizionarsi a metà strada tra la prima e la seconda banca più grande del paese. La possibilità che l’Italia di Mario Draghi si ritrovi nuovamente a vivere una fase dominata da improvvisi rimescolamenti di carte nel mondo finanziario (Draghi fu protagonista di una stagione di rimescolamenti, quando fu governatore di Banca d’Italia, nel 2007, ma le due stagioni sono molto diverse per alcuni motivi che approfondiremo tra qualche riga) somiglia sempre meno a un retroscena e sempre più a un fatto reale. E la notizia, arrivata martedì pomeriggio, dell’acquisizione da parte di Unipol di una robusta fetta di azioni della Popolare di Sondrio (Unipol aveva il 2,9, salirà al 6,9, con l’obiettivo di arrivare almeno al 9,5 per cento) ha avuto l’effetto di accelerare alcuni ragionamenti relativi non solo a ciò che sarà del terzo polo bancario ma anche a ciò che sarà di alcuni asset strategici del nostro paese. Asset come UniCredit. Asset come Mediobanca. Asset come Generali. Asset come Banco Bpm. Asset come Carige. Asset come Mps.
Tutto comincia poco più di un anno fa quando l’acquisizione di Ubi da parte di Intesa Sanpaolo costringe la banca guidata da Carlo Messina a sacrificare alcuni sportelli (620) per evitare di incorrere nella tagliola dell’Antitrust. Gli sportelli vengono ceduti alla Banca Popolare dell’Emilia-Romagna (controllata dalla Unipol di Carlo Cimbri con il 19 per cento) e da mesi gli osservatori si chiedevano chi tra le banche destinate a fare un passo in avanti nell’allargamento dei propri orizzonti avrebbe fatto la prima mossa. La prima mossa l’ha fatta Cimbri, con Bper, scegliendo di rafforzare la partecipazione in una banca come quella di Sondrio molto solida sul risparmio gestito e facendolo pochi mesi dopo aver affidato la guida della stessa Bper a un ad, di nome Piero Luigi Montani, che in passato ha guidato prima Antonveneta, poi Bpm e dunque Carige e che di fusioni se ne intende. Secondo molti osservatori, la scelta di Cimbri di partire dalla scalata sulla banca di Sondrio per costruire il primo tassello del terzo polo della finanza – scalata che poi potrebbe proseguire con l’acquisizione da parte di Cimbri di una vecchia conoscenza di Montani: Carige – è una decisione che rimette al centro dei giochi una banca molto ambita, e molto ben radicata in Lombardia, che per diversi mesi è stata considerata come una possibile alleata della stessa Bper. Quella banca si chiama Banco Bpm, è guidata da un ad di nome Giuseppe Castagna (il presidente è invece Massimo Tononi, ex braccio destro di Prodi all’Iri, in rapporti complicati con l’ad Castagna) e da mesi gli investitori scommettono sulle azioni di Banco Bpm per una ragione: è convinzione di molti che Banco Bpm si sposerà con qualcuno e fino a qualche ora fa le opzioni possibili erano o Bper o UniCredit. Se davvero, come registrano molti osservatori, il matrimonio con Bper si è complicato (tra Cimbri e Castagna non corre buon sangue) si può dire che il pallino della partita ora si trova nelle mani dell’altro possibile pretendente che risponde al nome di Andrea Orcel, da pochi mesi numero uno di UniCredit. Che cosa farà Orcel? Il mercato, conoscendo la storia da investment banker di Orcel, è convinto che UniCredit farà presto una mossa per tentare di imporsi come banca di sistema alternativa a Intesa Sanpaolo.
E le mosse che ha a disposizione Orcel sono due: preoccuparsi di consolidare la sua presenza sul territorio lombardo (dove UniCredit, quanto a numeri di sportelli, è debole) acquisendo Banco Bpm o utilizzare le sue energie (e le sue risorse) per sostenere la battaglia che stanno tentando di combattere in Mediobanca due vecchi mastini come Leonardo Del Vecchio (classe 1935) e Francesco Gaetano Caltagirone (classe 1943). La storia la conoscete ma un piccolo ripasso degli equilibri in Mediobanca può aiutarci a capire meglio di cosa stiamo parlando. Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, possiede il 15,4 per cento delle azioni di Mediobanca (l’ultimo pacchetto è stato acquistato pochi giorni fa da Fininvest, attraverso l’intervento come operatore finanziario di UniCredit, e diversi osservatori sostengono che la stessa direzione possa prendere presto anche il pacchetto del 3,3 per cento che in Mediobanca ha Mediolanum) e un anno fa sempre Del Vecchio ha fatto richiesta alla Bce di poter arrivare fino a una quota pari al 20 per cento di Piazzetta Cuccia. Allo stesso tempo, Del Vecchio è anche proprietario di una piccola quota di UniCredit (1,9 per cento) con la quale, a inizio 2021, è riuscito a smuovere le acque nell’istituto bancario. Al punto da aver contribuito in modo decisivo al passaggio di consegne alla guida della banca da Jean Pierre Mustier ad Andrea Orcel. Le acque sono state mosse da Del Vecchio anche per evitare che UniCredit potesse spendere energie e risorse per acquisire Mps e molti osservatori sostengono che la coppia Orcel-Del Vecchio potrebbe lavorare a una triangolazione molto ambiziosa e molto temuta dall’attuale amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel: una fusione tra Mediobanca e UniCredit.
Non è detto che il progetto vada in porto (anche se dopo aver ceduto nel 2017 Pioneer, società specializzata in Investment Banking, UniCredit avrebbe bisogno di rafforzarsi in quel settore, e Mediobanca in quel campo è un’eccellenza) ma è invece meno difficile che vada in porto l’altro progetto a cui Del Vecchio, con il beneplacito di UniCredit, sta lavorando insieme con Francesco Gaetano Caltagirone: cambiare gli equilibri in Mediobanca per cambiare gli equilibri in Generali. Mediobanca, come sapete, è azionista numero uno di Generali, con il 12,93 per cento, e da tempo molti osservatori hanno notato una simmetria tra le mosse di Caltagirone (che in Mediobanca ha l’un per cento) e quelle di Del Vecchio (che in Mediobanca come detto ha il 15 per cento). Una simmetria molto ambiziosa il cui obiettivo è creare discontinuità in Generali (dove Del Vecchio ha il 4,8 per cento e dove Caltagirone ha il 5,6) anche a costo di far saltare il prossimo anno, quando si rinnoveranno le cariche, l’attuale ad Philippe Donnet, criticato da alcuni azionisti che rimproverano a Generali di non sfruttare a pieno le sue potenzialità ma molto protetto dal suo caro amico Alberto Nagel (che a sua volta fa asse spesso e volentieri con la Unipol di Cimbri, che in Mediobanca detiene una quota dell’1,9 per cento, che rientra all’interno del patto di sindacato che con il 10,6 per cento governa la Mediobanca di Nagel).
La prima mossa dell’anno nella super partita del risiko delle banche offre dunque alcuni highlights utili su quelli che saranno i duelli economici dei prossimi mesi (duelli che avranno al centro da un lato il tentativo di schivare una patata bollente di nome Mps e dall’altro il tentativo di rosicchiare a Intesa Sanpaolo il dominio assoluto della galassia del nord). Ma offre anche uno spunto di riflessione su un altro fronte, che ci consente di rilevare una differenza interessante tra la stagione delle fusioni a cui Draghi ha assistito quando era alla guida di Bankitalia e quella a cui Draghi sta oggi assistendo alla guida del governo. Ai tempi del Draghi di Bankitalia, il tentativo di far nascere un terzo polo bancario venne sollecitato, stimolato e agevolato dalle istituzioni e dalla politica (e non fu un successo). Ai tempi del Draghi di Palazzo Chigi, il tentativo di far nascere un terzo polo bancario (e contestualmente di rafforzare un polo alternativo a quello di Intesa Sanpaolo) passa anche dalla capacità dello stato (e delle istituzioni) di disinteressarsi della grande partita in corso evitando di usare il proprio potere di interdizione per spingere la disastrata Mps (controllata al il 68,2 per cento dallo stato, attraverso il Mef) nelle braccia di alcuni protagonisti del risiko bancario. E passa anche dalla capacità dei partiti di fare quello che non sappiamo se avranno il coraggio di fare: far sì che il risiko bancario venga guidato un po’ più dal mercato e un po’ meno dai veti della politica. Più o meno il criterio che Draghi sembra essere riuscito a imporre nell’altra partita cruciale per il futuro degli assetti economici: le nomine delle partecipate. Ieri Ferrovie, oggi Cdp. Se il metodo è davvero questo, più spazio al mercato meno spazio ai veti della politica, forse anche sul risiko bancario c’è spazio per essere ottimisti. Claudio Cerasa