dopo le scuse
Bettini: "Oggi, forse, si può iniziare un dialogo più maturo col M5s"
La lettera indirizzata da Di Maio al sindaco di Lodi, Simone Uggetti, è la giusta premessa al gran lavoro che c'è da fare anche sul piano di una riforma della giustizia, di nuove leggi e di nuove regole. Ci scrive l'ex eurodeputato pd
Ho trovato umanamente onesta e di grande rilievo politico la lettera di scuse di Luigi di Maio indirizzata al sindaco di Lodi, Simone Uggetti.
Cade nel mezzo di una furibonda tempesta che investe settori della magistratura. E apre, per quanto mi riguarda, una porta di possibile dialogo serio con alcune posizioni nuove che stanno emergendo nel Movimento 5 stelle.
La giustizia italiana è malata nel suo complesso. La magistratura nella storia della repubblica ha fornito eroici esempi di lotta alla criminalità organizzata e a tutte le mafie. Tanti sono caduti sul campo, assassinati per aver svolto il loro dovere.
Eppure da tempo si è prodotta un’incertezza e una drastica riduzione di fiducia circa i magistrati italiani.
Gli errori giudiziari possono sempre accadere. Le sentenze hanno l’imperfezione degli umani. E come ricordava Montesquieu l’esercizio del potere giudiziario è sempre terribile.
Ma nella realtà di oggi sta accadendo qualcosa di più grave: lo scostamento di troppi da quella “deontologia del magistrato” di cui ha parlato splendidamente Luigi Ferrajoli in un intervento di qualche anno fa al congresso di magistratura democratica. Ricordo l’essenziale di quella deontologia: la consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale; il valore dl dubbio; l’indifferente ricerca del vero; la comprensione della singolarità di ciascun caso; il rispetto di tutte le parti in causa; la capacità di suscitare la fiducia delle parti; la riservatezza; il rifiuto anche solo del sospetto di una strumentalizzazione politica.
Vige nella realtà di oggi questa deontologia?
Oppure le pressioni esterne attraversano i processi, condizionano le sentenze, incombono sugli imputati che, a parte la loro colpevolezza o la loro innocenza, sono sempre la parte più debole perché, tranne che non appartengano ad associazioni criminali, sono soli di fronte alla forza dello stato che si concentra in chi ha in mano l’istruttoria e il destino che attende loro?
Non è così. Ecco perché sono diffuse le esperienze drammatiche e lesive come quelle vissute dal sindaco di Lodi. E da tanti altri. Da una parte o dall’altra dello schieramento politico.
Ma al di là di errori o mancanze soggettive è un quadro di norme che non garantisce una giustizia “giusta”.
Un utilizzo spropositato della carcerazione preventiva, che meritevolmente il ministro Orlando cercò di limitare attraverso forme alternative di controllo e detenzione; una prescrizione senza limiti di tempo, in processi troppo lunghi che tengono le persone sulla corda per anni e anni; un eccesso di lunghezza delle indagini a scapito del dibattimento dove le parti si possono confrontare apertamente per avvicinarsi alla verità dei fatti; infine una mancata terzietà del giudice. Quando il confronto è di “uno, uno e uno” si determina un equilibrio. Se, invece, è “due e uno”, non c’è più parità tra l’accusa e la difesa.
C’è dunque tanto da fare. Anche sul piano di una riforma della giustizia, di nuove leggi e di nuove regole. Questo non potrà che favorire l’impegno di quella grande parte della magistratura italiana che lavora con sacrificio, limpidezza e disinteresse. Senza pregiudizio, ma con quella umanità che porta ad un accertamento dei fatti nel rispetto di ognuno.
Sono stato uno dei promotori e difensori fino all’ultimo del governo Conte II. E non me ne pento affatto. Eppure ho sempre manifestato un dissenso sulle posizioni del Movimento 5 stelle circa la giustizia. Oggi, forse, si può iniziare un dialogo più maturo e di reciproco ascolto. Sono figlio di un avvocato penalista. E sono nato a Roma, dove si sono costruite le prime grandi forme del diritto. La civiltà greca ha dato straordinarie prove di speculazione filosofica, di ricerca dell’armonia e del bello. Ma siamo stati noi romani a costruire le forme più certe circa il rapporto tra i cittadini e lo stato. Dovremmo riappropriarci con più coraggio di tali radici