Divergenze parallele
Blocco dei licenziamenti, come uscirne nel modo migliore?
Parlano Emiliano Brancaccio, professore associato di politica economica all’Università del Sannio, e Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt
Il blocco dei licenziamenti ha fatto discutere la politica questa settimana. Unico paese in Europa, l’Italia ha adottato il blocco all’inizio della pandemia e lo prolungherà in modo generalizzato fino a fine giugno. Da quel momento in poi le imprese potranno procedere con licenziamenti individuali, mentre chi vorrà ancora usufruire della cassa integrazione Covid, senza versare contributi addizionali, non potrà licenziare ancora per qualche mese. Ma sarebbe falso scrivere che non si sia licenziato affatto fino a ora: licenziamenti disciplinari, procedimenti collettivi precedenti a febbraio 2020, di dirigenti e per cessazione attività sono sempre stati possibili, per non parlare di tutti quei lavoratori con contratto precario che non sono stati rinnovati.
A Divergenze Parallele ne discutono, a distanza, Emiliano Brancaccio, professore associato di politica economica all’Università del Sannio, e Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt.
Blocco dei licenziamenti, come uscirne nel modo migliore? Fine agosto come avrebbe voluto il ministro Orlando o fine giugno, come richiesto da Confindustria?
Emiliano Brancaccio - Meglio fine agosto. Ma a livello macroeconomico la scelta tra un mese e l'altro non è decisiva, la differenza è quasi insignificante.
Francesco Seghezzi – I licenziamenti sono iniziati nei fatti da un anno e mezzo, terminare il blocco formale vuol dire uscire dalla situazione normativa ma non liberalizzare i licenziamenti, che sono già in atto. Lo ha scritto il Ministero del Lavoro: tra le varie deroghe possibili sono stati licenziati 550mila lavoratori nel 2020, la metà del 2019 ma comunque un numero importante. Questo significa anche che il giorno dopo la fine del blocco non ci sarà un’ecatombe, perché già in tanti sono usciti dalle aziende. Il compromesso che è stato trovato mi sembra ragionevole, tiene assieme gli ammortizzatori e la libertà di impresa. Non ho invece compreso la polemica politica di questi giorni: la proposta Orlando spostava soltanto il problema due mesi più in là, nulla di rilevante.
A ritroso, anche col senno di poi, avrebbe consigliato nel marzo 2020 di attivare il blocco dei licenziamenti? E, successivamente, di rinnovarlo fino a oggi in tutte le occasioni in cui se ne è discusso?
Emiliano Brancaccio - Gli economisti contrari al blocco dei licenziamenti ritengono che questo genere di lacci legislativi renda inefficiente il funzionamento dell’economia, impedisca la “distruzione creatrice” del libero mercato e alla fine faccia danni alla crescita e all’occupazione. Teoria elegante, che però viene spesso smentita dalle evidenze empiriche.
Francesco Seghezzi – Non amo i ragionamenti con il senno di poi. Ad ogni modo, quantomeno un blocco di licenziamenti nei settori che sono stati obbligatoriamente chiusi all’inizio della pandemia continua a sembrarmi ragionevole all’inizio della crisi. Bisognava garantire la sicurezza dei lavoratori, visto che non si trattava di una crisi di mercato. Avrei invece allentato le regole a partire dall’estate scorsa, molto più di quanto è stato fatto, quando vi era un accenno di ripresa. Già allora avrei messo sul piatto il compromesso attuale: cassa integrazione gratis e sblocco dei licenziamenti.
Esistono evidenze di effetti negativi sulle assunzioni e sugli investimenti e rinnovamenti aziendali dovuti alla mancanza di flessibilità in uscita per le imprese per il blocco dei licenziamenti?
Emiliano Brancaccio - Se ci riferiamo specificamente allo shock pandemico nel nostro paese, tra le poche ricerche pubblicate uno studio di Bankitalia conclude che, assieme all’estensione della cassa integrazione, il blocco ha contributo a evitare 200 mila licenziamenti aggiuntivi nel 2020. Se parliamo in termini più generali, l’ottantotto percento delle ricerche pubblicate nell’ultimo decennio su riviste accademiche internazionali smentisce l’idea che una maggiore flessibilità del lavoro favorisca l’occupazione. Anche istituzioni storicamente favorevoli alla deregulation del lavoro come Banca Mondiale, OCSE e FMI, hanno riconosciuto che l’impatto della flessibilità sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche risulta “insignificante o modesto”, “nullo o limitato”, “non significativo”.
Francesco Seghezzi – Sulle assunzioni un effetto negativo c’è stato: il blocco dei licenziamenti è come se fosse una certificazione normativa dell’incertezza. Le aziende assumono soprattutto sulla base della fiducia che hanno sul futuro: e se c’è il blocco dei licenziamenti è evidente che le imprese possono essere poco ottimistiche. D’altra parte assunzioni se ne sono fatte, anche tante, nei settori che sono andati bene. Non credo che le imprese si lascino condizionare troppo, ma è possibile che quelle già incerte vi trovino un alibi per non assumere. Sono stati i più giovani a essere colpiti: cioè chi ha bisogno di più formazione e fiducia nel momento dell’assunzione. Due fattori su cui l’incertezza si abbatte con più forza.
Da mesi si parla di associare allo sblocco dei licenziamenti una riforma del welfare che lo renda più inclusivo e punti sulla formazione. Per ora non è stato fatto quasi nulla. Cosa possiamo aspettarci dai prossimi mesi?
Emiliano Brancaccio - Le politiche di formazione dei lavoratori disoccupati sono benvenute. Ma i posti vacanti disponibili non raggiungono un quinto del totale dei disoccupati. Con un tale scarto tra domanda e offerta di lavoro, la soluzione chiave non sta nel condizionare l’erogazione dei sussidi all’impegno dei lavoratori a qualificarsi o a cercare attivamente un’occupazione. Piuttosto bisognerebbe creare più posti di lavoro, e per farlo si dovrebbe iniziare almeno a riconoscere che le politiche macroeconomiche messe finora in atto in Italia e nel continente europeo sono insufficienti rispetto all’enormità di questa crisi.
Francesco Seghezzi – Non ho speranze che si faccia qualcosa di serio. Si discute di riforme degli ammortizzatori sociali e di politiche attive: in Italia le gestiamo in modo separato, ma in realtà andrebbero unificate. Avremmo bisogno di dieci anni per mettere a regime una riforma, non i pochi mesi a disposizione. Spero si possa invece iniziare un percorso. Anche perché, se devo essere sincero, le riforme scritte durante le emergenze mi preoccupano un po’, poiché si tende ad associare la condizione di emergenza alla normalità, e approvare delle norme che in tempi ordinari non funzionano. Prenderei quindi del tempo e mi concentrerei invece sulle politiche attive, per cui ci sono a disposizione i soldi del Recovery Fund e anche quelli della legge di bilancio 2021. La mia massima aspirazione entro il 31 ottobre è questa.