Il capitalismo non è avidità
Rep, Stampa, Libero, Osservatore. Tutti d’accordo: è per la sete di profitto che si consumano drammi come quello di Stresa. Ma il capitalismo non c’entra nulla con la strage e, al contrario, calcola come mitigare i rischi
Mai come in altri casi la strage del Mottarone ha unito la stampa italiana non solo, ovviamente, nel racconto del dolore della tragedia ma anche nell’individuarne la spiegazione, diciamo, sociologica: l’avidità. Dalla Stampa a Repubblica a sinistra, fino a Libero a destra, passando per l’Osservatore Romano al centro, quella di Stresa è “la strage dell’avidità”. E’ per soldi, secondo le prime ricostruzioni, che tutto ciò è accaduto. Per evitare di riparare alcune anomalie segnalate dal sistema di sicurezza e quindi rinunciare ai guadagni delle prime riaperture, i gestori della funivia avrebbero deliberatamente scelto di manomettere e disattivare il sistema frenante di emergenza inserendo gli ormai famosi “forchettoni”. Il movente che avrebbe prodotto questa strage è stato poi esteso a patologia della nostra società e connaturata al sistema capitalistico: è in nome della ricerca del profitto e dei guadagni che vengono calpestati i diritti e si consumano drammi come questo.
Non è così. L’avidità non c’entra con il capitalismo, o meglio, c’entra nella misura in cui c’entra con la natura umana, ma non è la caratteristica distintiva e più importante del sistema di mercato più o meno libero. Questo aspetto era evidente a chi, come Max Weber, ha studiato a fondo i meccanismi etico-culturali alla base del capitalismo: “L’avidità di lucro, la ricerca del guadagno, del denaro, di un guadagno pecuniario quanto più alto possibile, in sé e per sé non ha nulla a che fare con il capitalismo. Questa tendenza si è trovata e si trova in tutte le epoche di tutti i paesi del mondo, ovunque ne fosse e sia data comunque la possibilità oggettiva”. Nel suo celebre saggio sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, il sociologo tedesco scrive che nelle epoche e società precapitalistiche (dal “mandarino cinese” al “patrizio romano” fino al “barcaiolo napoletano”) l’avidità “si esprime persino in una maniera straordinariamente più penetrante”.
Ciò che invece contraddistingue il capitalismo moderno è la ricerca “razionale” del guadagno, che ha quindi come elemento centrale il “calcolo”. “Il capitalismo – scrive Weber – può addirittura identificarsi con l’inibizione di questo impulso irrazionale (l’avidità, ndr), o almeno con la sua attenuazione razionale” se questo è utile e necessario. E’ ciò che fanno tutti gli imprenditori, pressoché la totalità, che non staccano i freni e i sistemi di emergenza.
Lo fanno non solo perché è eticamente giusto non mettere a rischio la vita degli altri, ma anche perché dal punto di vista del calcolo imprenditoriale non c’è confronto possibile tra il risparmio immediato e l’assunzione di un rischio fuori scala che manda a gambe all’aria la vita dell’impresa e la libertà stessa dell’imprenditore. E’ proprio la “logica del profitto”, oltre che il dovere morale e il codice penale, che suggerisce di rispettare le norme di sicurezza. E, senza alcun dubbio, se ne sono ora rese conto anche le persone che sono responsabili di questa tragedia e, forse, di questo crimine (ma questo è un aspetto che riguarda il processo penale).
Calcolare i rischi è una caratteristica fondamentale del sistema capitalistico che, anzi, ha inventato una serie di strumenti finanziari per mitigarli. Non mettere in sicurezza la propria impresa è forse una scelta “avida”, ma non è saggia né conveniente per un capitalista, soprattutto se questo comportamento vìola anche le leggi che, ovviamente, dovrebbero entrare nel calcolo economico dell’imprenditore. Come ha osservato Francesco Costa del Post.it, staccare i freni di emergenza di una funivia “è una scelta stupida proprio sul piano economico, oltre che per tutto il resto”. E forse, più che l’avidità, il vero movente della strage del Mottarone è proprio la stupidità. O meglio, una sua particolare sottospecie: l’irresponsabilità.