La corsa per il Campidoglio
Perdere! E perderemo! Fenomenologia del centrodestra romano
L'occasione che, a Roma, la destra sta perdendo
Candidati improbabili, difesa dell'italianità, strategia alla Christian De Sica. Cosa è la destra a Roma? Cravatte stropicciate e facce sudaticcie. Il loro migliore candidato (che non vogliono candidare) è solo uno: Carlo Calenda
La raison d’etre del centrodestra capitolino è politica da osteria: cravatte stropicciate e mani sudaticce, svolta liberale con l’enfasi di Bombolo che annuncia il jumbo per Colleferro e poi Alitalia difesa nel nome dei sacri valori patri e che sei matto a mettere a gara licenze taxi, demaniali o delle bancarelle?
Da decenni questo centrodestra, per quanto cambi sigle, nomignoli, acronimi, propone come novità sempre le stesse facce, giusto risciacquate frettolosamente in Tevere, con strategia da film di Christian De Sica.
La mancanza di un candidato unitario per le elezioni capitoline, credetemi, è proprio l’ultimo dei problemi.
Ma quale candidato potrà mai saltar fuori da questo esibito guerreggiare di tutti contro tutti, Lega contro FdI, singola corrente della Lega contro altra corrente, FdI contro Forza Italia, Salvini contro Raggi.
E nella singolar tenzone tra Salvini e la Sindaca, una contesa snocciolata nelle reels di Instagram e che rende Grotte Celoni una appendice di un video di TikTok con più disagio sociale di un video di un trapper, gli esponenti locali del Carroccio si sono dovuti affannare nel reggere il moccolo della guerricciola personale, invece di mettersi di buona lena a scrivere il programma per una città che fa tremare le vene ai polsi.
Errore marchiano, polarizzare l’attenzione nazionale su di una sfida politica che si svolge su campo ostile e da cui hai davvero tutto da perdere. Ma che nessuno ha rimarcato, perché non si può contraddire il capo, non sia mai il mettersi in cattiva luce. E così, invece di essere spaventati dal fascio, eh, di luce quasi divina che irrora la Mordor capitolina rendendola platea di una faccenda non più solo sospesa tra Boccea e il Laurentino, sentendosi ormai investiti di una missione politica nazionale, usciti a riveder le stelle dal bozzolo della piccina destra capitolina, gli esponenti del centrodestra romano hanno ripreso a far quel che gli riesce meglio da sempre: azzuffarsi tra loro, per un posticino in prima fila sulla Zattera della Medusa alla deriva nel mare largo del Tufello.
Antipatie da corridoio, faide politiche da osteria, convegni da baretto bangla sulla Prenestina, gazebate contro le voragini su strada e in difesa dei lavoratori Alitalia ma che in realtà misurano i giardinetti di potere della corrente personalistica del consigliere municipale o comunale, perché a Roma nel centrodestra tutto è personale.
Il voto, il sostegno, la partecipazione all’ìncontro, che se per sbaglio partecipi a quello sbagliato ti mettono la lettera scarlatta addosso. E tutto avviene in assenza palese di categorie produttive e di società civile, nonostante sia così tanto invocata, e di una classe dirigente che nessuno ha mai costruito e che mi pare chiaro non possa esistere solo perché a qualcuno viene in mente di definirti dall’oggi al domani ‘classe dirigente’. Che sarebbe come proclamare ‘consulente alle politiche agricole’ il fruttivendolo sotto casa.Un giorno, per capirci bene, ad un professionista è stata chiesta una idea per un progetto tecnico, su una delle problematiche che maggiormente affliggono la vita dei poveri cittadini romani. Lui, diligentemente e pro bono, ha steso la bozza. E l’ha consegnata. Sembrava destinata ad una fantasmatica e non meglio chiarita struttura dipartimentale che avrebbe dovuto stilare il programma di governo per Roma, un programma che a pochissimi mesi dalle elezioni nessuno ha ancora visto, perché, semplicemente, non c’è.
La bozza, così gli era stata presentata la richiesta, avrebbe dovuto stimolare una riflessione e la redazione di un articolato progetto da parte delle migliori menti politiche e professionali cooptate. La bozza ha girato per mani, per scrivanie e corridoi. E alla fine è tornata nelle mani del professionista. Esattamente uguale a come lui l’aveva redatta. Stesse parole, stessa intestazione, in realtà il foglio era proprio quello. Non si erano presi nemmeno la briga di copiarlo con un font diverso. E il parlamentare che gliela aveva fatta vedere, tutto impettito e orgoglioso, non sapendo che si trattava del frutto dell’intelletto dell’allibito interlocutore, gli ha domandato un parere su quell’ottimo progetto che avevano elaborato loro. Il tecnico ha fatto buon viso a cattivo gioco e ha risposto che non era male affatto. E in cuor suo ha deciso che avrebbe votato Calenda.