Dal Pci ai M5s
L'arte antica del chiedere scusa
Come Occhetto e Fini, anche Di Maio si pente per rinnovarsi
Quando Achille Occhetto vide crollare il Muro di Berlino chiese scusa per tutte le nefandezze del comunismo, perché quello era forse l’unico modo per far sopravvivere il Pci alla storia che finiva. Fare a pugni con la propria ombra. Anche Gianfranco Fini si scusò per il fascismo, che pure non aveva conosciuto, perché solo in questo modo il leader del Msi avrebbe potuto farsi stringere la mano in Europa da vicepremier o da ministro degli Esteri. Allo stesso modo anche Francesco Cossiga poté vivere la sua stagione alla presidenza della Repubblica perché già molti anni prima d’essere eletto al Quirinale aveva preso le distanze dal personaggio che portava il suo nome negli anni Settanta, quando era stato il ministro dell’Interno delle bombe e degli abusi polizieschi, di piazza Fontana e del delitto Moro. Si capisce quindi che scusarsi in politica non è certo un tornare indietro o un ritirarsi ma – al contrario – è un andare avanti e un rilanciarsi. Al punto che le scuse sono come le vitamine, rigenerano. Anzi, sono come la canfora: conservano. Così, si parva licet, anche Luigi Di Maio ora chiede scusa per gli anni della gogna, delle manette e della bava alla bocca. Tutto ciò che lo ha portato al governo infatti non serve più. È l’armamentario scaduto di una stagione conclusa. Va gettato. Dunque: scusatemi.
Ai tempi del Pci l’autocritica – che era collettiva – dava un certificato morale all’opportunismo, consentiva cioè delle svolte, anche quando si trasformava nel più laico “scusatemi”. Permetteva infatti di resistere e continuare a esistere anche di fronte alle trasformazioni del mondo. Cosa che poi, nel tempo, com’è noto, in Italia ha stratificato a sinistra un esercito di persone, sempre le stesse e sempre in uscita da se stessi. L’esercito degli ex(it): gli ex Pci, poi diventati ex Pds, poi ex Ds e un giorno (chissà quando) pronti anche a diventare ex Pd. “Scusateci”. Insomma non può stupire che oggi Luigi Di Maio, il più rapido e ginnasticato dei grillini, dotato com’è di un’intelligenza prensile, scopra anche lui d’essere diventato un’altra persona e tenti dunque pure lui di uscire da se stesso attraverso la porta del “chiedo scusa”, che è la sua exit. Come Occhetto dopo il 1989, come Fini negli anni Novanta, anche Di Maio deve affrontare i tempi nuovi (che richiedono parole nuove). E il suo battersi il petto, il suo mea culpa, il suo rivolgersi all’intero Movimento “che deve riflettere”, in un lampo lo propone come l’unico leader di quella galassia di (ex) scoppiati che un tempo si riunì attorno ai vapori esalati da Beppe Grillo sul palco del vaffanculo.
È infatti lui che invita i 5 stelle a condividere la sue scuse, non Giuseppe Conte. È Di Maio che porta il Movimento sulle “posizioni nuove”. Chiedendo scusa. Dunque altro che umiliazione o passo indietro. C’è al contrario alle sue spalle un’eternità di foresta, un sentiero ben sperimentato. La sapienza del chiedere scusa. Non solo l’autocritica e nemmeno soltanto l’opportunismo, ma quasi una forma di maturità democristiana e gesuitica, un modo di muoversi seguendo precetti di potere che rimandano alla lezione evangelica ma riletta dalla furbizia della Dc: le scuse sono virtuose perché il peccatore va sempre accolto (in special modo se quel peccatore sono io). E allora Di Maio, ormai ex Giggino, demolisce la sua biografia per ricostruirla sopra quelle macerie, proprio come nel bellissimo sms che mandò a Salvini dopo il Papeete, quando quello gli offriva la presidenza del Consiglio e voleva farlo tornare al passato. Gli rispose: “Scusami, ma ormai non posso più”.