Mario Draghi (foto Ansa)

Draghi uomo solo al comando è una novità per l'Italia. Ma anche un rischio

Giuliano Ferrara

Il presidente del Consiglio incarna una nozione dell’autorità indiscussa che per il nostro paese è un'occasione. Ma non solo

Draghi ha autorità, il governo è fondato su quell’autorità, che non è solo competenza o curriculum, è qualcosa di più e di diverso. Da quando si è formato il governo da lui presieduto, nessuno che conti e abbia voce in capitolo ha criticato Draghi. Qualche ironia frondista su giornali laterali, forse, ma nemmeno la piccola opposizione di destra, che fa le sue battaglie di bandiera, come peraltro fanno anche partiti e componenti della maggioranza, si spinge fino a trascurare un principio di rispetto personale e di riconoscimento di valore diretto a Draghi. Per usare una formula equivoca e insipida applicata ad altri capi dell’esecutivo nel bailamme della polemica spicciola, Draghi è un caso di uomo solo al comando. L’uomo di stato autorevole fa attenzione, ascolta, compone prospettive anche diverse o opposte, media e transige su quanto reputa inessenziale, poi decide e la sua volontà diventa legge.

Non c’è bisogno di tante parole, never complain never explain. Draghi si limita a presentazioni di decisioni, brevi sommari di attività, piccoli ritocchi e ornamenti retorici dovuti alla pratica dell’incontro tra chi dirige un ministero e l’opinione pubblica o il Parlamento, in qualche caso scarta proposte con freddezza (seguo i dati epidemiologici per le riaperture, corro un rischio ma solo se calcolato, non è il momento di prendere soldi ma di darli). Non definisce un orizzonte politico nel senso tradizionale per il suo governo, e nemmeno per sé stesso in relazione al destino personale, non polemizza, non accusa, non difende, non interferisce nella dialettica dei partiti, non ha bisogno di proiettare nel futuro possibile l’attività di decisione, gli basta un criterio generale di praticabilità e opportunità delle scelte, il riferimento alla svolta europea del debito mutualizzato e del piano di rinascita concordato calendario e orologio alla mano. Il vero ancoraggio dell’autorità è un presente in cui essa decide di fattori essenziali dello sviluppo e della convivenza sociale, passato e futuro sono segni polemici e presagi, sono simboli, quel che conta è l’interpretazione autorizzata qui e ora, la scelta discreta e inappellabile, meglio, inappellata, una cosa che in teoria potrebbe essere cambiata e perfino rovesciata ma in realtà viene accettata così com’è. Diciamo la verità: non era mai successo. De Gasperi, Fanfani, Moro, Craxi e altre figure della politica italiana di governo sono sempre state caratterizzate, ben prima della cosiddetta stagione populista, anche prima dell’avventura anomala di Berlusconi, da divisività, litigiosità, immersione nell’immaginario della lotta, competitività accesa, controversia radicale. Qui si vive in un clima di sospensione assoluta della tradizionale contesa politica, non c’è un’autorità che lavora per il bene comune, piuttosto è quell’autorità stessa che viene percepita come il bene comune, tutto è troncato, sopito, rinviato a una data che non ha relazione con le decisioni del momento, a una situazione di ritorno alla politica che non viene evocata o al massimo appena accennata come timida previsione nel caso l’autorità decisionale sia trasferita al Quirinale in un ruolo di garanzia.

Quando cadde Berlusconi e fu sostituito da Monti si creò un’opposizione dura, di contenuto e di metodo, e lo stesso premier defenestrato oscillò tra un appoggio di facciata e l’evocazione di un colpo di stato ai suoi danni. In regime di austerità contro la crisi finanziaria vaste resistenze sociali si fecero sentire, nonostante lo stato di grazia e certe durezze riformiste dei primi due, tre mesi. In regime di ripresa, rinascita, ritorno dello stato, spesa pubblica in deficit, vincolo esterno concreto per riforme da anni dovute, in questo contesto di unità nazionale la maestria nell’uso politico decisionista di un’autorità che integra e sostituisce quella dei partiti si sente come un esperimento inedito e per certi versi inaudito anche in Europa. De Gaulle, Adenauer, Brandt, Thatcher furono esperienze limite, nel loro nome si costruirono mutamenti e prodigiosi ribaltamenti di fronte istituzionale e sociale, si facevano pezzi di storia politica.

 

Oggi il famoso laboratorio italiano produce una specie di sospensione della storia politica, e in Draghi uomo solo al comando si incarna una nozione dell’autorità indiscussa e illimitata che è una novità, una grande occasione per un paese che l’autorevolezza l’aveva smarrita per strada da tempo, se mai in quei termini l’aveva conosciuta, e ovviamente anche un rischio.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.