L'intervista

"Vi racconto la nuova giustizia". Parla Gatta, consigliere della Cartabia

E' docente di Diritto Penale e fa parte dei saggi che la ministra della Giustizia ha chiamato per lavorare al nuovo testo

Carmelo Caruso

Consigliere giuridico della ministra e studioso che ha lavorato al testo di riforma. Indagini veloci, il ruolo dei pm e dei gip, patteggiamenti. Ecco cosa prevede la giustizia del dopo Covid

Roma. Ecco un “signor riforma”. Fa di nome Gian Luigi Gatta. E’ ordinario di Diritto Penale alla Statale di Milano. Al ministero della Giustizia è stato chiamato come vice presidente della Commissione che “elabora proposte di riforma di processo e sistema sanzionatorio, nonché in materia di prescrizione del reato”. Significa che è una delle teste della nuova  giustizia della ministra Marta Cartabia (è suo consigliere giuridico) e che la riforma è fatta con la testa (e l’accademia). Cosa cambia? Tutto.  Dice Gatta: “Il pm deve chiedere il rinvio a giudizio solo se ha elementi tali da determinare la condanna”. 

 

Due mesi e mezzo di lavoro che Gatta definisce “intenso”. Uno zibaldone di correttivi che saranno ora valutati in vista della presentazione degli emendamenti governativi. Perché si ritiene una riforma coraggiosa? Perché segue un adagio “fare presto e fare bene”. Spiega infatti il professore che l’Italia ha collezionato oltre 1.200 condanne dalla Corte dei Diritti dell’Uomo  per irragionevole durata del processo. In quei casi “il processo è di per sé una pena”. Cosa si fa dunque? “L’obiettivo è ridurre la durata a partire dalla fase delle indagini e passando attraverso i diversi gradi di giudizio. La lentezza alimenta la prescrizione del reato. Una patologia ne genera un’altra. E’ vero che di fatto la prescrizione del reato è, per l’imputato, la via d’uscita da un processo che sì è trascinato a lungo. Ma è anche vero che, quando il reato si prescrive, il processo fallisce la sua funzione. La novità. Si fissa a dodici mesi la durata delle indagini per reati minori. Fino a due anni per i più gravi”.

 

Se il pm è indeciso, se il pm prende tempo, e perde tempo? Risponde Gatta: “Interviene il giudice e induce il pm a decidere: o si archivia o si cita in giudizio. Ma si decide, non si lascia il fascicolo negli scaffali della procura”. Altro intervento? “L’appello. E’ la fase più critica: dura mediamente otto volte di più rispetto agli standard europei. La Commissione propone alcuni limiti, per tutte le parti, alla possibilità di presentare l’appello. E propone di concepirlo come un secondo giudizio, a favore del solo imputato, volto alla verifica di specifici aspetti. Un appello che rimette in discussione singoli punti, insomma. Non l’intera vicenda processuale”. 

 

Qual è la ragione in più per farlo? Ancora Gatta: “Riformare il processo, compreso l’appello, è fondamentale. I fondi europei del Recovery sono subordinati a un impegno che il governo ha assunto: ridurre la durata del processo del 40 per cento nel civile e del 25 per cento nel penale, nei tre gradi di giudizio”.

 

Mezzi? Come? “Favorire  il patteggiamento prevedendo uno sconto della pena fino alle metà (oggi arriva a un terzo) e consentendo di evitare le pene accessorie e la confisca, se facoltativa”. C’è ancora dell’altro. Si propone di ampliare, e molto, quella fascia di reati che, per la particolare esiguità dell’offesa, si possono escludere dalla punibilità. Come nel caso del furto di una melanzana”. Cosa sarebbe? Racconta Gatta: “E’ un celebre processo, un furto di una melanzana, prelevata da un campo, che è arrivato fino alla Cassazione”. Non esiste già “l’esclusione di punibilità per la tenuità del fatto”? “Esiste ma con limiti di pena che non consentono di applicare la causa di non punibilità a un furto come quello citato, o a casi simili e frequenti nelle aule giudiziarie. Rinunciare dunque a celebrare tre gradi di giudizio per il furto di una melanzana o per furtarelli in supermercato. Accade anche questo nell’universo della giustizia penale”. Era giustizia?

 

 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio