I costi dell'antipolitica
Caccia al leader
Un tempo Roma e Milano sceglievano sindaci che avrebbero avuto un ruolo nella politica nazionale. Oggi non si trovano i candidati
Oggi sembra impossibile, vedendo quanto fatichino i principali schieramenti a trovare qualcuno che mostri la minima voglia di fare il sindaco, ma c’è stato un tempo in cui nelle campagne elettorali per la guida dei comuni si decidevano i leader e gli equilibri politici nazionali dei successivi vent’anni. A Roma, per esempio. Non per niente, con una dichiarazione di voto alle amministrative della Capitale – voto ipotetico, per giunta, essendo lui milanese – Silvio Berlusconi fece in pratica il primo passo della sua famosa discesa in campo.
Era il 1993, a confrontarsi erano Francesco Rutelli, leader dei Verdi, e Gianfranco Fini (il beneficiario dell’endorsement berlusconiano) leader del Movimento sociale. Avrebbe vinto il primo, ma non è questo che conta.
Il punto è che il vincitore, otto anni dopo, al termine del suo secondo mandato da sindaco, sarebbe diventato leader dell’alleanza di centrosinistra alle elezioni del 2001, capo di uno dei principali partiti della coalizione negli anni successivi (la Margherita) e vicepresidente del Consiglio nel 2006. Ma anche lo sconfitto, in seguito, sarebbe diventato uno dei più importanti leader del centrodestra: vicepresidente del Consiglio nel 2001, ministro degli Esteri nel 2004, presidente della Camera nel 2008.
In altre parole, se allora, nella sfida per le città, si misuravano i leader dei decenni successivi, ora si cercano, senza successo, gli sfidanti dei decenni precedenti. A Milano, per esempio. Da Letizia Moratti, sindaca della città dal 2006 al 2011, a Gabriele Albertini, suo predecessore eletto nel 1997, che il centrodestra ha disperatamente e inutilmente corteggiato per mesi. Ricevendo reiterato rifiuto, analogo a quello incassato a Roma, negli stessi giorni, da Guido Bertolaso, già candidato e poi scaricato dagli stessi partiti di centrodestra nel 2016 (lanciato come scelta unitaria della coalizione in febbraio, appena un mese dopo si vedeva presentare contro la segretaria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, appoggiata anche dalla Lega, per essere infine abbandonato pure da Forza Italia alla fine di aprile). Non stupisce che abbia declinato. Stupisce semmai che quegli altri, gli stessi della prima volta, abbiano avuto il coraggio di richiederglielo. Il coraggio, la faccia tosta o forse, semplicemente, la disperazione.
Eppure diverse volte nella recente storia della politica italiana – e ormai anche non tanto recente – le elezioni amministrative hanno assunto un significato di svolta epocale. Se non altro come promessa, sia pure non sempre mantenuta. Le amministrative del 1975, per esempio, alimentarono il sogno (o l’incubo, secondo i punti di vista) del sorpasso comunista sulla Democrazia cristiana. Che non ci fu, perché alle politiche dell’anno successivo, nonostante il massimo storico toccato dal Pci, con il 33 per cento, la Dc arrivò a uno stratosferico 38, di certo anche grazie al terrore generato dall’ombra del sorpasso (non per niente fu in quell’occasione che Indro Montanelli disse: “Turatevi il naso e votate Dc”).
Qualcosa del genere capiterà anche nel 1993, con la tornata di elezioni comunali che, sull’onda di Tangentopoli e del tracollo del vecchio sistema politico, porta all’elezione di sindaci di centrosinistra in buona parte d’Italia, e non solo di Rutelli a Roma: da Napoli, con Antonio Bassolino, a Venezia, con Massimo Cacciari. Personalità, come si vede, non proprio di seconda fila, e destinate a calcare le scene a lungo. A dispetto del clamore provocato dall’endorsement berlusconiano per il leader del Movimento sociale – i giornali titoleranno con allarme sul “cavaliere nero” – i risultati delle amministrative alimentano, ancora una volta, l’idea di un’imminente vittoria delle sinistre alle politiche, che si terranno solo pochi mesi dopo, il 27 marzo 1994. E finiranno, come sappiamo, con il trionfo del “cavaliere nero”. E qui sarebbe forte la tentazione di chiosare con una celebre barzelletta romana, ma mi tratterrò (per i tre che ancora non la conoscessero, c’è google, e un grandissimo Gigi Proietti ad attenderli).
E tuttavia il protagonismo di quelle esperienze amministrative sarà così forte che pochi hanno dopo ne nascerà addirittura un partito dei sindaci, il movimento “cento città”, a scuotere un centrosinistra che al governo ha già i suoi problemi, e infatti non gradirà. Il presidente del Consiglio Giuliano Amato lo definirà il partito delle “cento padelle”, il suo predecessore a Palazzo Chigi, Massimo D’Alema, il “partito dei cacicchi”. Ma il mito del sindaco come incarnazione di una politica rinnovata, più efficace e più vicina ai cittadini, ai confini tra politica e antipolitica, durerà a lungo, e sarà un pezzo fondamentale dell’ascesa di Matteo Renzi da sindaco di Firenze a capo del governo.
Siccome in Italia nulla si distrugge e tutto si ripete, una terza replica della storia, volendo, si potrebbe vedere nelle amministrative del maggio 2011, con i successi di Giuliano Pisapia a Milano e Luigi de Magistris a Napoli, e l’effimera primavera del Movimento arancione, una fase di particolare euforia a sinistra, anche sulla scia della vittoria ai referendum di giugno sull’acqua pubblica. Euforia destinata a spegnersi quasi subito nel rigido novembre del governo Monti. Il confronto con il passato evidenzia peraltro un’altra anomala simmetria – o simmetrica anomalia, fate un po’ voi – tra destra e sinistra. E cioè che a destra, oggi, non riescono a trovare personalità da candidare, mentre a sinistra non riescono a tenersi quelli che hanno eletto.
A Roma, l’ultimo sindaco di centrosinistra si chiamava infatti Ignazio Marino, e fu il Pd a cacciarlo (dal Campidoglio e di fatto anche dal partito), mentre l’attuale sindaco di Milano, Beppe Sala, è ancora sindaco, ma non è più del Pd. D’accordo, per essere precisi la tessera non l’aveva mai presa, ma da anni si parlava della sua possibile candidatura alla guida del partito, o direttamente a Palazzo Chigi. A marzo è passato ai Verdi.
Questo del resto sembra essere il destino di tutti i principali leader della sinistra milanese. Senza far paragoni – per carità – ma da Benito Mussolini a Bettino Craxi, pare che dopo un iniziale innamoramento, per qualche motivo, debbano sempre finire altrove, scacciati in malo modo. Il predecessore di Sala, Pisapia, fu lanciato da Pier Luigi Bersani come leader della coalizione di sinistra da lui promossa dopo la scissione del Pd, nel settembre 2017, a sei mesi dalle politiche del 2018. Durò poco più di Bertolaso.
A pesare, incredibilmente, furono anche gli strascichi della dura polemica interna suscitata in luglio dall’avere il leader in pectore salutato cordialmente Maria Elena Boschi, addirittura con un abbraccio, a una festa dell’Unità. “Serve un chiarimento politico”, arriva a dire l’allora presidente della Toscana, Enrico Rossi. Fatto sta che a dicembre, tre mesi prima del voto, leader della lista unitaria formata da Articolo 1 e Sinistra italiana è incoronato Piero Grasso. Un discorso a parte – sulla sinistra e su Milano – meriterebbe poi un altro socialista sui generis, finito anche lui su lidi molto lontani. Il già citato Berlusconi, che il 31 luglio 1994, quando era entrato a Palazzo Chigi – per la prima volta – da neanche tre mesi, ispira a Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della sera, alcune interessanti considerazioni. L’articolo comincia così: “Il brusco declino dell’immagine politica di Silvio Berlusconi richiede inevitabilmente che si approfondisca l’esame dei presupposti ideologici di quello che può dirsi il ‘berlusconismo’...”. Tra questi presupposti lo storico individua una certa “ideologia milanese”, il cui elemento centrale è “l’antipoliticità”, il rifiuto della politica e della sua autonomia, incarnata da Roma. Dove Roma vuol dire anche, ovviamente, lo Stato.
L’ideologia milanese sarebbe dunque un impasto capace di sfociare nelle direzioni più diverse: dalla rivolta contro lo “statalismo autoritario crispino” di fine ottocento al movimento del Sessantotto e successivamente all’“autonomismo socialista degenerato nel Garofano”, per finire con Mani Pulite e la Lega, con cui Milano “manda all’aria il Caf e con esso l’ultimo tentativo della prima Repubblica di pietrificare per l’eternità la propria torbida agonia”. Dall’elenco, forse per il timore di mandare tutto in vacca, mancherebbe Mussolini, ma la lacuna è presto colmata dalla replica di Eugenio Scalfari, che pochi giorni dopo, su Repubblica, osserva: “Dalla capitale lombarda sono partiti in questo secolo tre personaggi come Mussolini, Craxi e Berlusconi, protagonisti di altrettante marce su Roma e di altrettante prese del potere che, pur nell’enorme differenza delle persone e degli esiti, hanno avuto tuttavia alcune caratteristiche comuni: quelle appunto che Galli della Loggia riassume nella sua tesi”. Alla quale tuttavia Scalfari rimprovera di avere trasformato in “ideologia milanese quella che è la ben più seria e complessa questione della borghesia italiana”. E aggiunge, con linguaggio desueto (anche per quei tempi, e anche per lui): “Noi infatti non abbiamo avuto nel marzo scorso la vittoria dei lombardi né, poco dopo, l’insediamento di un governo lombardo a Roma. Abbiamo avuto invece la nascita d’un governo di classe, portatore di interessi di classe”. Interessi che si manifesterebbero nella tendenza a trasferire in politica la “cultura aziendalistica”, fatta di decisionismo e insofferenza ai controlli, dunque strutturalmente antiparlamentare.
D’altra parte, parlando proprio di Mussolini, Berlusconi e Craxi, e poi dei sindaci di Roma divenuti leader nazionali, un mio amico siciliano – come tutti i siciliani amante dei paradossi, e forse anche delle citazioni non dichiarate – ripeteva spesso che a Milano si fa la storia, a Roma al massimo si fa politica. Osservazione cui ho sempre replicato che sarà stato anche vero, ma i sindaci di Roma, mediamente, hanno fatto pure meno danni.
Non avevo ancora visto Virginia Raggi. Sulla parabola del municipalismo del Movimento 5 stelle, che proprio dalla vittoria alle amministrative del 2016, a Roma e a Torino, avrebbe preso l’abbrivio che ne avrebbe fatto il primo partito alle politiche del 2018, si potrebbe scrivere un libro. Ma sarebbe un libro privo di senso, come tutta la loro vicenda, che può essere letta soltanto come specchio, e moltiplicatore, della crisi della politica. O se preferite come trionfo dell’antipolitica – un tratto antico della storia nazionale, certo non solo milanese – anche a livello cittadino.
Ospite della trasmissione “Agorà”, Enrico Letta ha osservato giovedì che “con il M5s non è una passeggiata e le amministrative non sono un passaggio facile, però con Conte il rapporto è positivo e come a Napoli troviamo anche soluzioni importanti”. Come a Napoli, dove il candidato sindaco faticosamente convinto – inizialmente non ne voleva sapere neanche lui, specialmente per via della voragine lasciata nei bilanci da Luigi De Magistris, con cui nel frattempo i giallorossi pensano di accordarsi in Calabria – risponde al nome di Gaetano Manfredi, e tra le sue prime dichiarazioni da candidato ha detto di tifare per la Juve. A Napoli. Per carità, ogni generalizzazione è sempre antipatica, e la storia delle cento città italiane è piena di alti e bassi, successi e sconfitte, stagioni gloriose e fasi di decadenza. Ma certo oggi è difficile entusiasmarsi per le primarie democratiche (dove le fanno) o per i “casting” del centrodestra (la definizione, evidentemente maliziosa, è di Repubblica). Anche su questo terreno, alla fine, paghiamo il conto di decenni di populismo. Sono i costi dell’antipolitica.
Il fatto è che i sindaci degli anni Novanta avevano montagne di soldi da spendere, conseguenti onori e visibilità, ed erano ben coscienti del fatto che, dopo aver tagliato un paio di nastri, avrebbero potuto finire al governo. I sindaci di oggi hanno montagne di debiti, assai meno onori e visibilità, e dopo un paio di firme rischiano pure di finire in galera. Non c’è da stupirsi che le domande per una simile posizione si siano ridotte parecchio, in quantità e in qualità.