Contro lo stato molesta-Rai
Oltre gli sproloqui su Bbc e canone. Per valorizzare davvero il servizio pubblico occorre cambiare editore e creare un’authority indipendente regolata dal Parlamento e sorvegliata dall’esecutivo
Non è che le nomine alla Rai debbano essere fatte subito o rinviate, benché tre anni di un QAnonista alla guida di informazione cultura e intrattenimento nazionale siano una cosa grottesca, è che va cambiato l’editore. Oggi tocca per legge ai partiti, la Rai è non solo sotto il controllo del Parlamento, è plasmata da decisioni parlamentari, cioè di partito. Sono i partiti a designare maggioranza e minoranza nell’organo di governo dell’azienda. Lo si sa, è scritto nella norma, non si può fare finta di niente. Ai tempi del primo governo Berlusconi cercai con un piccolo blitz di piazzare la Rai sotto l’Iri, sperando che un ente a partecipazione statale, gestito privatisticamente, e per di più in esaurimento, fosse un luogo di sottrazione del servizio pubblico alla sudditanza partitica. Fui respinto con perdite.
La lagna è sempre un brutto spettacolo, sposata con l’ipocrisia è disdicevole, parecchio. Si ricomincia con i paragoni tradizionali, e torna la vana chiacchiera sul canone, sulla Bbc, sulla sostenibilità del debito, sul carattere pletorico dell’organico, su un regime di indipendenza e insieme di servizio pubblico che con l’assetto editoriale attuale andrebbe garantito da organizzazioni politiche da decenni impegnate nello sforzo di garantirsi uno spazio vitale nella grande fabbrica culturale eccetera eccetera.
Anche a supporre che nelle condizioni attuali, in presenza di un esecutivo in cui è forte la componente non direttamente partitica, si decida per un direttore generale valutato per il merito, e che del merito faccia parte una tempra autonoma da condizionamenti, il risultato sarebbe quello di sempre. I giornali hanno un editore, i negozi un titolare, le imprese un azionista: è li che si imposta il business. E il business della Rai si realizza a partire da chi ne è titolare, cioè dai partiti politici, che non demonizzo in sé, ma che su questa partita, eleggendo il presidente e sorvegliando il consiglio di amministrazione occhiutamente, hanno spesso dato il peggio di sé trasformandosi in camarille predatorie capaci di sottomettere alla loro logica chiunque arrivasse, magari con le migliori intenzioni, dall’esterno del giro, e il caso Foa è solo l’ultimo degli obbrobri.
Svincolare la Rai dal potere di nomina parlamentare, affidandola a un governatore e al suo staff invece che a un parlamentino interno fatto dai partiti, è possibile solo cambiando la norma che regola il sistema. E’ appena ovvio e fa pensare male che la questione sfugga in apparenza ai più. Questo svincolo, come dimostra proprio il caso della Bbc, non ripulisce per definizione un colosso informativo sensibile dalle interferenze sociali e di lobby, non gli garantisce di non sbagliare anche gravemente, non lo emancipa dalla prevalenza di un criterio culturale o di orientamento in fatto di politica e costume, non lo libera dal rischio della faziosità più o meno dissimulata. La differenza è che il circuito della responsabilità non farebbe più riferimento al potere intoccabile del legislativo, il servizio pubblico resterebbe come concetto e elemento guida ma non più come servizio politico diretto. In epoca di “ritorno dello stato”, come recano i titoli dei convegni di studio sulla famosa crisi del liberismo, il problema è riconfigurare che cosa sia stato o potere pubblico. Questo vale per l’economia e per i servizi pubblici, compresa mamma Rai. Sotto una authority regolata dal Parlamento e sorvegliata dall’esecutivo, ma pienamente indipendente, non dovrebbe più succedere che un governo improvvisato come quello Salvini-Di Maio abbia la disponibilità, mediante negoziato di maggioranza, di destinare la Rai a un teorico pettegolo del complottismo dark. Non è una estromissione dello stato, è un suo ritorno senza le molestie.