il cantiere del centrosinistra
Federazione, ma con chi? Da Leu a Renzi, i veti incrociati che scuotono il Pd
Così i dem si spaccano tra chi guarda al centro e chi a sinistra.
Calenda accoglie tutti ("Ma i 5s devono capire cosa sono"), Bersani stringe il perimetro, Rosato se ne chiama fuori. E poi c'è l'incognita Conte. Letta si ritrova a gestire un'Unione che è tutta una conventio ad excludendum. La riunione dei dem al Senato e le baruffe in chat
Carlo Calenda prova a farla semplice. “Basterebbe fare riferimento alle grandi famiglie europee”, sentenzia. E dunque? “E dunque Socialdemocratici, Verdi, Libdem e Popolari da un lato, a costituire quello che io chiamo il ‘Fronte repubblicano’, e dall’altro i sovranisti”. Facile, appunto, almeno in apparenza, anche perché il primo problema di metodo, nel dover tracciare i contorni della futuribile “federazione” di centrosinistra, il leader di Azione lo accantona con fare sbrigativo: “Se ci dovrebbe stare dentro anche il M5s? Ma bisogna capire quanti sono, i Cinquestelle, perché io non ci credo affatto che stiano al 15 per cento, e soprattutto cosa sono, cosa vogliono diventare. E non è una questione di moderazione: è una questione di classe dirigente e di cultura di governo. Quanto alla sinistra, invece, io non ho preclusioni. Di certo non verso Leu, che non ascriverei certo alla sinistra barricadera”.
E insomma se non facile appare possibile, messa così. Solo che a suonare dalle parti di Pierluigi Bersani, se ne ricava un’impressione diversa. “Ma non è una questione di veti: è solo che dei confini troppo ampi rischiano di scolorire l’identità”, osserva Federico Fornaro, capogruppo di Leu alla Camera. “Qui non servono operazioni tattiche: qui c’è bisogno - dice - che il centrosinistra definisca un perimetro politco e programmatico sulla base di priorità che derivano sull’analisi della società italiana e dei suoi bisogni attuali. Da questo punto di vista, credo che Calenda difficilmente potrebbe essere considerato di centrosinistra”.
E se lo sbarramento vale per il leader di Azione, figurarsi per Matteo Renzi. “Non ci vogliono in questa ipotetica nuova unione? Bene, accetto il loro veto”, se la ride Ettore Rosato, coordinatore di Italia viva. “Leu, il Pd e il M5s hanno già creato una federazione di fatto a livello parlamentare, e noi non ne facciamo e non faremo parte. Anche perché il governo che si fondava su quell’alleanza noi lo abbiamo fatto cadere. Loro ce lo rimproverano, noi lo rivendichiamo”. E magari sarà pur vero quel che si dice nel gruppo di Iv, e cioè che Rosato esprime per lo più la voce di chi al salto della barricata verso il centrodestra guarda con favore, e che quella voce non è condivisa da tutti i renziani. Ma il sugo della storia è che come che la si provi ad allestire, questa federazione, ci si ritrova sempre con qualcuno che vuole starci solo a patto che non ci stia il suo dirimpettaio: una matassa di conventiones ad excludendum che rischia perfino di ingarbugliarsi ancor più, col M5s che, per riguadagnare spazio e visibilità, sotto la guida di Giuseppe Conte pare tornare al suo credo più ortodosso.
Un’entropia scomposta che inevitabilmente si riversa sul Pd, che di questa galassia è un po’ il centro gravitazionale, e ne prova la concordia interna. Che sia da qui che passa la faglia della coalizione che verrà, o forse no, lo si è capito ieri durante l’assemblea dei senatori. Perché, di fronte a delle proiezioni di YouTrend che mostravano una certa coincidenza tra l’aumento del consenso per Mario Draghi e la flessione nei sondaggi per il partito di Enrico Letta, l’ala riformista s’è messa in agitazione. In particolare quella fronda che si riconosce nella bellicosità di Andrea Marcucci, che ha subito condannato la scelta del Nazareno di “intestardirsi in battaglie identitarie come ius soli e tassa di successione”. Gianni Pittella ha definito “esiziale” l’errore di un Pd “che rinuncia al dialogo col centro, e anche con pezzi di FI, per privilegiare l’intesa col M5s”. E qui - al di là delle proteste della capogruppo Simona Malpezzi e di altri esponenti della corrente riformista, come Enrico Borghi ed Emanuele Fiano, per la fuga in avanti dei loro compagni di cordata - sta il punto politico. Perché Anna Rossomando, esponente orlandiana della segreteria, ha ribattuto allora che “il centro non esiste: e infatti nella mia Torino abbiamo sempre vinto convincendo il ceto borghese, ma forti del 70 per cento nelle periferie”. Insomma, dove deve guardare questo Pd? Al centro o a sinistra? Non c’è il rischio che per farsi bifronti, in quest’opera di conciliazione, si finisca col diventare strabici? Chissà.
Di certo Letta un suo perimetro ce l’ha in mente: ci vede Calenda, nel suo nuovo “Ulvio 2.0”, ma non Renzi. “E’ bastato che si parlasse di redistribuzione e di progressività fiscale, per capire che lui ormai sta a destra”, ha spiegato giorni fa il segretario. Il quale, del resto, è convinto che la dinamica in atto, a livello mondiale, sia quella di una nuova polarizzazione della dialettica politica: di qua la sinistra, di là la destra. Solo che a discernere gli amici dai nemici, almeno per ora, si rischia di perderci il sonno e la ragione. Senza contare, poi, che l’urgenza della federazione, almeno sulla carta, esisterebbe con la sopravvivenza dei collegi uninominali “di coalizione” previsti dal Rosatellum. Ma se nella legge elettorale che propone il Pd ci crede davvero, se davvero si punta a un proporzionale con premio di maggioranza, “allora - dicono al Nazareno - ognuno dovrà far fatica per guadagnarsi il pane”.