Una seduta della Camera dei Lord britannica (foto LaPresse)

la riflessione

A che punto è la democrazia

Sabino Cassese

La pandemia ha mostrato le sue fragilità, la Cina deplora le sue lentezze. In difficoltà per le tante voci da ascoltare, sta perdendo  la componente essenziale della competenza. Ma è davvero in pericolo? Un dialogo

Se lo chiedono in molti: la democrazia è in pericolo? Ecco le due campane, una rappresentata da Ademo (senza popolo), l’altra dal suo opposto, Demo. Il primo è un personaggio della famosa “Utopia” di Thomas More (1516). Ma potrebbero anche chiamarsi come i due famosi protagonisti della “Montagna magica” di Thomas Mann (1924) Naphta, il reazionario, e Settembrini, il progressista e illuminista.

Ademo. Sulla democrazia è calato “l’inverno del nostro scontento”. C’è un diffuso disincanto per la democrazia. Pochi credono nel suo progresso. Anche i paesi democratici si venano di elementi autoritari. La pandemia ha mostrato la fragilità delle democrazie, la loro incapacità di decidere. Per molti le democrazie sono “Lebensunfähig”, cioè incapaci di sopravvivere. Un autore tedesco, Tristan Barczak, ha scritto un libro intitolato Der Nervöse Staat (Mohr Siebeck, 2021), in cui analizza lo Stato d’eccezione, quello in cui abbiamo vissuto negli ultimi tempi. La più antica democrazia, quella britannica, nega il diritto di voto ai prigionieri. La democrazia americana  mostra segni di difficoltà (basti pensare all’assalto a Capitol Hill). Siamo ben lontani da quella “politique rationelle” di cui parlava Alphonse de Lamartine. Ci si chiede quale è il lato della democrazia da conservare e quale, invece, quello di cui liberarsi.
Demo. Non nego che siamo in difficoltà. Qualcuno parla di una recessione della democrazia. Qualcuno lamenta l’erosione del capitale di fiducia, qualcun altro segnala la crisi rinviata del capitalismo. Ritengo, tuttavia, che i segni di crisi – se di crisi si può parlare – vadano esaminati uno per uno, per non fare di tutta l’erba un fascio. Inoltre, se ci sono inconvenienti nel funzionamento delle democrazie moderne, se ne può trarre la conclusione che l’istituto della democrazia sia in crisi? Difficoltà congiunturali debbono far dubitare della bontà strutturale della democrazia? Se si dovesse abbandonare la democrazia, quale altro tipo di reggimento politico scegliere? La storia del mondo non insegna che vi è stata una continua tendenza a introdurre ordinamenti democratici? Ritorno comunque al mio argomento principale: quali sono gli inconvenienti della democrazia? 
 

Ademo. Comincio con la lentezza. Il presidente americano Biden ha recentemente riferito che il presidente cinese Xi Jinping “ritiene che le democrazie siano troppo lente”.
Demo. Ma la lentezza è segno del carattere temperato, riflessivo della democrazia. Le ricordo che Thomas More, nel suo famoso libro Utopia, esponeva l’idea che una proposta non potesse essere decisa prima di un certo numero di giorni. E l’articolo 94 della Costituzione italiana, allo stesso scopo, prevede che la mozione di sfiducia al governo “non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione”. Quindi, il tempo, fa parte della democrazia, anche se poi vi sono differenze di velocità che dipendono dalle culture nazionali. Poi, le esperienze concrete dimostrano che non si può affermare che i sistemi autoritari sono efficienti, mentre i sistemi democratici non lo sarebbero. Basti pensare a certe esperienze autoritarie dell’America centrale e meridionale, oppure, sul lato opposto, all’esperienza della democrazia britannica al suo apogeo. In altre parole, vi sono sia democrazie sia regimi autoritari che hanno tempi lunghi.
 

Ademo. Ma la democrazia vorrebbe che il potere venisse esercitato dal popolo, mentre oggi quasi tutte le democrazie hanno un carattere leaderistico. I partiti si sono liquefatti; il potere è personalizzato. Più che di popolo si può parlare di folla, come nel teatro di Shakespeare. Poi, il potere non consiste nel “saper fare” per chi pensa che “uno vale uno” e disprezza la competenza. La rappresentanza, una volta, era considerata una “designazione di capacità” (Vittorio Emanuele Orlando, 1889). Nel 1881, Marco Minghetti nel suo libro su I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia nell’amministrazione (Bologna, Zanichelli, p. 218-219), faceva una previsione che non si è realizzata: “La tendenza scientifica del nostro tempo produce l’effetto di introdurre l’elemento tecnico in ogni parte della cosa pubblica… è da credere che nell’avvenire non sarà più possibile chiamare al ministero di agricoltura un maestro di musica, o a quello di marina un avvocato”. La democrazia sta sempre più perdendo questo sua componente essenziale della competenza. Come si può governare una società se i rappresentanti del popolo non hanno alcuni requisiti essenziali di competenza?  Poi, la politica è sempre più istantanea: a ogni elezione locale, regionale, europea, si chiede un aggiornamento della rappresentanza nel Parlamento nazionale, così negando l’autonomia degli enti. La classe politica è composta di “spiriti di corta vista che appassiscono in corso di fioritura”, che fanno proposte quotidiane alla ricerca di consensi immediati. La politica è sempre più gladiatoria, immediata, di rappresentazione, non riflessiva, spettacolarizzata, superficiale, asincrona, perché ognuno va per la sua strada, con i suoi tempi.
Demo. Non nego che cambino le forme in cui la democrazia opera. Ma alla crisi dell’associazionismo politico fa riscontro un pullulare di associazionismi di tipo sociale e parapolitico. Se l’associazionismo politico è in crisi e le forze politiche sono sempre meno partiti-associazioni, rimane però l’elemento competitivo, schumpeteriano, della democrazia, che consente di offrire scelte all’elettorato tra leader in concorrenza tra di loro. Se i politici sono meno competenti, l’assenza è compensata da organismi epistocratici che costituiscono riserve di competenza (banche centrali, corti  costituzionali). La corta vista dei politici nazionali è compensata dalla vista necessariamente lunga dei politici impegnati a livello sovranazionale. Il carattere gladiatorio, spettacolare, teatrale della politica democratica non va imputato soltanto al corpo politico, ma anche al suo pubblico, e in particolare ai mezzi di comunicazione di massa, che ne accentuano le caratteristiche peggiori. La asincronia della politica può essere anche il segno di un sostanziale accordo sugli obiettivi di fondo o sulla necessità di ogni forza politica di dialogare con il proprio elettorato.
 

Ademo. Un altro segno di crisi, in particolare di quella italiana, è il continuo ricorso ai cosiddetti tecnici. Perché si vota, se poi bisogna ricorrere ad essi? In un quarto di secolo, abbiamo avuto prima Ciampi, poi Dini, poi Monti, poi Conte, nelle due versioni, infine Draghi. Poi, vi sono stati tecnici componenti dei governi: con Ciampi metà dei ministri erano tecnici; nel primo governo Conte, un terzo; nel suo secondo governo un quarto, nel governo Draghi di nuovo un terzo. I partiti, rinunciando a fare i partiti-associazione e divenendo movimenti, hanno aperto la strada a tutti questi tecnici.
Demo. Ma si può tracciare una linea di separazione netta tra cosiddetti tecnici e politici? Vi sono politici che sono anche tecnici, come Brunetta, oppure tecnici che hanno anche svolto attività politica, come Bianchi. Oppure tecnici che operano, in quanto membri dei governi, in aree estranee alla loro specifica competenza. Oppure tecnici come Draghi, che ha svolto per dieci anni il ruolo di direttore generale del Tesoro, per sei quello di governatore della Banca d’Italia, per otto quello di presidente della Banca centrale europea. Si può dire che quest’ultimo non sia un politico? Questi sono segni della fragilità e della forza della democrazia. Consapevole delle proprie debolezze, si appoggia a chi ne sa di più: molti di questi tecnici non sono genericamente soltanto degli esperti, ma hanno anche esperienze organizzative. E questo comporta anche una riscoperta dell’articolo 92 della Costituzione, che conferisce al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri, mentre una volta questa decisione era il frutto di un accordo tra i partiti.
 

Ademo. Un altro limite della democrazia è quello di sottoporsi a poteri sovranazionali che non hanno legittimazione democratica. Questi poteri  sovranazionali rispondono al criterio di una “machine that runs of itself”, per adoperare una espressione usata da James Russell Lowell nel 1888 per criticare la fiducia di alcuni costituenti americani nella perfezione meccanica del sistema politico americano. Anche se gli organismi sovranazionali sono monofunzionali, la globalizzazione è prevalentemente amministrativa o riguarda la “low politics”, le amministrazioni nazionali partecipano alla formazione della volontà degli organismi  sovranazionali, tutto questo non toglie che nell’arcipelago pubblico i regolatori globali non abbiano diretta legittimazione democratica.
Demo. Ma gli organismi globali hanno il supporto degli Stati nazionali e spesso anche degli organismi substatali. Godono, quindi, di una legittimazione indiretta. Inoltre, essi concorrono a limitare il potere degli Stati, quindi svolgono una funzione democratica. Anche se non democratiche, le organizzazioni sovranazionali tengono bene sotto controllo quelle nazionali: basti pensare ai due esempi dell’Ungheria e della Polonia nell’Unione Europea.
 

Ademo. Parliamo anche dei segni di crisi della democrazia che derivano dall’esperienza della pandemia. Il politologo americano Francis Fukuyama, in un’intervista data al Corriere della Sera del 20 maggio 2021, ha osservato che “l’altro grosso effetto della pandemia è il rilancio dello Stato come investitore e come regolatore”. In uno studio intitolato “The Effect of Covid on Eu Democracies” (European Policy Institutes Network, 30 aprile 2021), viene  osservato che gli esecutivi si sono rafforzati, si sono indeboliti i controlli dei parlamenti sui poteri esecutivi, i parlamenti sono stati messi da parte. 
Demo. Queste critiche della democrazia considerano soltanto l’aspetto della legittimazione elettorale, che risale alle definizioni enfatiche della democrazia, come quella di Lincoln (1863), come governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo,  oppure quella delle Nazioni Unite, come libera espressione della volontà dei popoli nel determinare i propri sistemi politici, economici, sociali e culturali. Ma la democrazia è innanzitutto limite del potere. Per capire questo, bisogna ritornare a un attento osservatore del potere, quale è stato Shakespeare. I grandi protagonisti detentori del potere nei drammi di Shakespeare, da Riccardo III a Giulio Cesare, incontrano un solo limite al proprio potere: quello naturale, la morte. Oggi il potere nasce limitato. Non è duraturo, perché sono pochissime le cariche assegnate a vita. Esse non hanno espansione illimitata perché  definite dalla competenza. Incontrano limiti nei contropoteri. Il potere è distribuito. 
 

Ademo. Questo porta acqua al mio mulino. Non tutti i poteri sono democratici, nonostante l’altisonante dichiarazione dell’articolo 1 della Costituzione italiana. I titolari del potere esecutivo e quelli del potere giudiziario non godono di una legittimazione elettiva.
Demo. Concordo: quell’incipit dell’articolo 1 della Costituzione è enfatico. Prende la parte per il tutto. Non tutto il sistema politico costituzionale italiano è retto dal principio democratico, e lo stesso può dirsi per tutti gli altri reggimenti democratici del mondo. Ma la democrazia, come limite del potere, è anch’essa limitata, perché si può esercitare solo in certi ambiti e solo da parte di certi soggetti. Ed è limitata nella sua durata. Non a caso i costituenti americani hanno previsto durate tanto diverse per i vertici dello Stato, due, quattro e sei anni. E hanno stabilito in qualche caso limiti al rinnovo. In Italia, la durata in carica del presidente della Repubblica è superiore a quella delle assemblee parlamentari perché – come osservava Costantino Mortati, uno dei costituenti – il presidente è così svincolato meglio dalla maggioranza che lo ha eletto, per raggiungere un migliore equilibrio istituzionale garantito dalla contemporanea presenza di organi che rispecchiano situazioni politiche non pienamente coincidenti tra di loro. In altre parole, la maggioranza di un certo momento non prende tutto, grazie alla durata diversa delle cariche.
 

Ademo. Anche l’elezione è uno strumento ambiguo. In che cosa consiste? Non si sceglie, ma si approva. Si approva un orientamento, indicando un partito; si approva una lista, indicando un elenco di persone. La scelta delle persone è fatta da altri, dai proponenti, cioè dalle forze politiche. E queste non riescono a scegliere le persone adatte, anche perché è difficile dire quali siano quelle giuste. Poi, perché i cosiddetti rappresentanti debbono essere anche i gestori della cosa pubblica? Non sarebbe bene che i rappresentanti fossero nettamente separati dai gestori? E non sarebbe necessario stabilire che, come vi sono requisiti di età e di cittadinanza vi siano anche requisiti di competenza e di esperienza per poter essere designati dalle forze politiche?
Demo. Ma proprio perché la democrazia è un regime così ambiguo si preferisce avere più democrazie, che si controllino reciprocamente e si preferisce far  esprimere il popolo non solo con le elezioni, ma anche con il dibattito pubblico, allargando lo spazio pubblico alla cosiddetta democrazia deliberativa. Inoltre, l’elettore compie una scelta. Si trova nelle stesse condizioni di un acquirente al quale vengono offerti più prodotti diversi per qualità e prezzo. Il votante, come l’acquirente, deve operare una scelta. Ma può anche non farlo, astenendosi dal voto, così come l’acquirente può rinunciare all’acquisto del bene. Quanto alla separazione tra rappresentanza e gestione, questa è presente “in nuce” in tutti gli ordinamenti moderni, anche se in Italia è tradita. Infatti, al vertice del potere esecutivo, al corpo politico spetterebbero indirizzo e controllo, e all’alta amministrazione spetterebbe la gestione. Con l’introduzione dello “spoils system”, tuttavia, questa distinzione è rimasta sulla carta.
 

Ademo. Ma ci si fida tanto poco della democrazia che viene anche sottoposta a controlli. I costituenti americani temevano la tirannide della maggioranza e quindi buttarono molta sabbia nelle ruote della democrazia, sia con una rigida separazione dei poteri sia riconoscendo un compito tanto importante alla Corte suprema (giudicare le leggi).
Demo. Questo non è un segno di debolezza, ma, al contrario, un segno di forza della democrazia. La democrazia non ha un eccesso di fiducia in sé stessa. Non nasce come uno strumento onnicomprensivo, totalizzante. Ha in sé stessa i propri limiti. Si potrebbe dire, riprendendo un dibattito che ha attraversato la storia del costituzionalismo americano fino a Woodrow Wilson, che la democrazia è ispirata a una idea darwinistica e non newtoniana, quindi non meccanicistica dei sistemi politici.
 

Ademo. Questo non vuol dire che, nell’ambito che è proprio della democrazia, la tirannide della maggioranza possa essere meno pesante della tirannide di un piccolo gruppo di persone in un regime autoritario. Se questo fosse composto da una élite illuminata, non sarebbe meglio?
Demo.  Nel corso della storia non vi sono stati casi di un ristretto manipolo di persone illuminate che, esercitando il potere, non ne abbiano abusato. Rimango, quindi, dell’opinione che i regimi democratici siano migliori di quelli autocratici a patto che nelle democrazie vi siano buoni giardinieri, perché le democrazie sono come i giardini: vanno disegnati bene; i semi vanno piantati, concimati, innaffiati; si deve contare sulla qualità del terreno, su condizioni atmosferiche favorevoli; poi, occorre procedere alle potature e agli innesti e solo alla fine ci sarà un bel giardino. Voglio dire che contano anche le circostanze e i contesti. Il peggiore sovrano d’Inghilterra, re Giovanni, firmò nel 1215 la Magna Carta. Quando si parla della democrazia italiana, non bisogna mai dimenticare quello che osservava Franco Venturi: “C’è la necessità di porsi e di riporsi il problema dell’unità. Non bisogna dimenticare mai che l’ultimo anno in cui ci fu in Italia un governo unico prima del 1861 è il 568, quando arrivarono i longobardi” (Franco Venturi, in Corrado Stajano, Maestri e infedeli. Ritratti del Novecento, Milano, Garzanti, 2008,p. 300). Infine, la democrazia è  il frutto di piccoli aggiustamenti e riaggiustamenti, esempio di quel “social engineering” che era proposto da Karl Popper come alternativo all’olismo, una forma di “filosofia terrena”, come l’economia.
 

Ademo. Voliamo più basso. Non può negare che la Cina abbia reagito più rapidamente e più efficacemente alla diffusione della pandemia e che anche l’Italia abbia dovuto mettersi nelle mani di un generale. Su questa difficile situazione sono state raccolte molte opinioni e svolti molti ragionamenti. Cito per tutti un’opera che in qualche modo li riassume, ponderosa e importante, curata per la Fondazione Leonardo da Alessandro Pajno e da Luciano Violante, Biopolitica, pandemia e democrazia. Rule of law nella società digitale, divisa in tre tomi: vol. I, Problemi di governo, vol. II, Etica, comunicazione e diritti, vol. III, Pandemia e tecnologie. L’impatto su processi, scuola e medicina (Bologna, il Mulino, 2021).
Demo. Riconosco la maggiore complessità delle democrazie. Questa complessità deriva dal fatto che, nel corso della storia, le democrazie hanno ascoltato più voci e hanno canonizzato un maggior numero di interessi collettivi, stabilendo criteri per la loro tutela. Quindi, ogni nuova decisione deve tener conto dei beni ambientali da tutelare, del patrimonio culturale da garantire, degli interessi dei lavoratori da proteggere, e così via. Ma questa maggiore complessità non comporta necessariamente maggiore lentezza, tanto è vero che quasi dovunque si parla di semplificazione e di reingegnerizzazione delle procedure. Uno sforzo di questo tipo è stato avviato e riavviato più volte negli ultimi anni anche in Italia, ma ha avuto due difetti. In primo luogo, non è stato continuo, è stato sottoposto a un ripetuto, “stop and go”. In secondo luogo, è stato diretto più a eliminare intralci e inconvenienti che a promuovere e incentivare un maggiore attivismo nelle strutture pubbliche. A questo bisogna porre rimedio.

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