Letta e la politica dei due altoforni: su Ilva lascia o raddoppia?
Il segretario del Pd riesce nell'impresa di andare in visita a Taranto e di non prendere posizione sull'ex Ilva
Enrico Letta è stato a Taranto nella città che, a suo dire, “tutta Italia deve risarcire”. Di Ilva, il segretario del Pd non ha detto nulla. Ma ad accompagnarlo c’erano i due amministratori del Pd, il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e il presidente della Puglia Michele Emiliano, contro cui si è costituito il governo al Consiglio di Stato, che proprio in questi giorni dovrà decidere se respingere l’ordinanza di spegnimento degli impianti Ilva.
L’azienda ha chiesto altre 13 settimane di cassa integrazione ordinaria per tutta la forza lavoro, ma la Fiom ha protestato: “La Cig per legge si apre per una crisi di mercato o eventi non prevedibili. I prezzi sono alle stelle, il settore auto ne chiede sempre di più, il settore alimentare denuncia che mancano lattine per inscatolare i pomodori. Siamo di fronte all’unica azienda che apre una cassa integrazione quando non c’è alcuna crisi”. La cosa bizzarra è che parliamo di un’azienda di stato. Infatti la Fiom di Genova si rivolge al ministro del Lavoro: “Andrea Orlando deve dirci se ritiene legittimo che l’Inps paghi una cassa integrazione per una crisi di mercato che non esiste”. La risposta di Orlando è stata la stessa del suo collega Giancarlo Giorgetti, già criticata dalla Uilm: “Dobbiamo aspettare il Consiglio di Stato”. Ma a questo punto non si farebbe prima a chiedere al sindaco e governatore pugliese di ritirare l’ordinanza?
Non è un tema affrontato da Letta nella sua visita a Taranto, dove ha confermato la ricandidatura a sindaco di Melucci e ha detto di Emiliano: “Tutta Italia gli deve molto perché sta facendo un grandissimo lavoro”. Anche se i due amministratori dem alla presenza del segretario hanno ribadito: “Noi vogliamo la chiusura dell’area a caldo”. Una posizione in contrasto con quella dei ministri del Pd che, sia nel governo Conte II sia in quello Draghi, sostengono l’aumento dell’area a caldo con il raddoppio della produzione dagli attuali 4 milioni di tonnellate di acciaio agli 8 milioni fissati nel contratto con ArcelorMittal dello scorso dicembre. Un obiettivo che, per chi ricorda, è stato indicato proprio dal piano ambientale voluto da Enrico Letta, quando da presidente del Consiglio firmò il decreto che varava il piano ambientale dell’Ilva elaborato dall’allora ministro dell’Ambiente Orlando (piano e Autorizzazione integrata ambientale che dal 2014 sono, ancora oggi, le norme fondamentali che tengono in piedi Ilva e ne regolano la produzione e le prescrizioni ambientali). Ad accompagnare Letta nel tour tarantino c’era anche il fedele Francesco Boccia, che non manca di lodare gli impegni del governo Conte per Taranto, senza però fare cenno al suo personale impegno sulla nomina dell’ex procuratore Capristo. Non mancano di notarlo i tarantini: il segretario viene criticato per l’accordo con ArcelorMittal, con un riferimento all’ultimo licenziamento di cui grazie anche alle proteste di Sabrina Ferilli ha parlato tutta Italia.
Letta quasi nega l’accordo firmato da Arcuri, Gualtieri e Patuanelli, per volere del presidente Conte, e che ha dato avvio alla nuova società tra Arcelor e lo stato. Del resto non sembra essere proprio un affare. Proprio ieri la Stampa ha tirato fuori la relazione di Kpmg che aveva elaborato la due diligence per la nuova società. Come lo stesso Aditya Mittal aveva dichiarato lo scorso mese durante la presentazione del bilancio del gruppo, ai 3,2 miliardi di utile del corporate nel solo trimestre 2021, corrispondeva quasi un miliardo di perdite di ArcelorMittal Italia. Con la nascita di Acciaierie d’Italia, la capogruppo ha deconsolidato la nuova società e quindi passato allo stato debiti e impegni accumulati, come già anticipato da uno dei commissari in audizione alla Camera lo scorso ottobre. Tra questi le quote di fitto non versate (seppur dimezzate), i crediti verso i fornitori (tra cui i 15 milioni verso Cimolai che hanno interrotto il completamento della copertura dei parchi minerari), e tutti gli investimenti che ammontavano a 2,4 miliardi solo per il piano ambientale.
Il 17 dicembre il commissario Arcuri dichiarava che ArcelorMittal era un interlocutore serio e affidabile e aveva già fatto un investimento di 1,8 miliardi (che in realtà doveva essere il costo dell’impianto). Ma dalle relazioni presentate dai commissari in Parlamento si sapeva già che l’investimento di ArcelorMittal Italia era stato di 220 milioni nel 2019, e 250 nel 2020. Arcuri, il Mef, il Mise, il governo Conte e il Parlamento sapevano di non fare un buon affare, almeno finché non verrà raggiunto il breakeven di 8 milioni di tonnellate l’anno. Ma chi è al governo vuole raddoppiare la produzione o no?