Giovanni Malagò, presidente del Coni (foto Ansa)

La trama di Malagò per stoppare la riforma del Coni

Valerio Valentini

Le mail del Cio a Palazzo Chigi, gli incontri con Garofoli, l'ambasciata a Salvini durante Italia-Svizzera. Così il presidente del Comitato olimpico ha provato a cambiare il dpcm

L’arma letale è stata la stessa della volta scorsa. Quando, cioè, a metà gennaio, con un governo già abortito e uno ancora non nato, e un decreto sul riassetto del Coni rimasto a mezz’aria, arrivò la minaccia del Comitato olimpico internazionale: “L’Italia potrebbe non essere ammessa ai Giochi di Tokyo”. E insomma quando martedì scorso, di buon mattino, gli uffici di Palazzo Chigi si sono visti recapitare dal capo delle relazioni istituzionali del Cio una lettera che sapeva di avvertimento, la battuta è risuonata immediata: “Riecco Malagò che ci riprova”. Né, del resto, occorreva troppa perspicacia per capire chi fosse l’ispiratore di quella mail: perché nel frattempo il presidente del Coni smaniava non poco, per provare a modificare il dpcm che avrebbe reso operativo il famigerato decreto di gennaio. E dopo aver smosso i molti, trasversalissimi contatti che può vantare in quasi ogni ministero, alla fine Malagò ha deciso che era il caso di scendere in campo in prima persona, facendosi ricevere direttamente da Roberto Garofoli. Ché va bene, sì, lo spirito olimpico: ma questa era una di quelle questioni in cui più che De Coubertin torna buono il compianto Boniperti: vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta. Perché in ballo c’erano almeno 165 dipendenti e una serie di strutture e palazzi, romani e non solo, del valore di quasi 40 milioni di euro. Tutti beni che, per farla breve, appartenevano a Coni servizi, il defunto braccio operativo del Coni, e che con la riforma avviata a suo tempo da Giancarlo Giorgetti, e poi arrivata a completamento solo ora, tre anni e due governi dopo, erano stati trasferiti alla neonata Sport e salute s.p.a.


Malagò non ci stava, però. Diceva che così il Coni perdeva la sua autonomia, in contrasto con la Carta olimpica. Solo che la soluzione che lui chiedeva a Renato Brunetta, quella cioè di trasferire in modo pressoché automatico funzionari e dirigenti di Sport e salute direttamente nel Coni avrebbe creato un precedente scivoloso. Quanto agli impianti e ai palazzi, gli emissari di Malagò chiedevano che nel trasferimento degli immobili da Sport e salute al Coni, venissero inclusi anche “i beni strumentali accessori e i titoli autorizzativi necessari all’esercizio delle attività”: una formula che avrebbe di fatto spostato sotto il controllo operativo del Coni l’Istituto di medicina dello sport, ospitato nello stabile dei Parioli che tornava in possesso del Coni stesso. Tutte richieste che la sottosegretaria Valentina Vezzali aveva respinto, e che allora Malagò, mercoledì scorso, ha provato a riproporre direttamente a Garofoli. Il quale però, col garbo che gli è proprio, ha  declinato l’invito.

E così alla fine nel dpcm firmato da Mario Draghi giovedì sera, la titolarità dell'Istituto è rimasta a Sport e salute, mentre  per il personale s’è trovata  una formula di compromesso (sessanta dei vecchi dipendenti di Coni servizi potranno tornare in modo automatico alla casa madre, per gli altri ci saranno invece concorsi agevolati). Non prima, però, che Malagò tentasse di sfondare nel più impensabile dei varchi. Perché, nella sua ormai mitologica guerriglia contro Giorgetti, il “presidentissimo” ha saputo coltivare buone relazioni con chi, nella Lega, conta più del ministro dello Sviluppo.  E così, chi era allo stadio Olimpico mercoledì, durante l’intervallo di Italia-Svizzera ha potuto osservare Carlo Mornati, segretario generale del Coni e fedelissimo di Malagò, intrattenersi a lungo con Matteo Salvini in tribuna. Ma era l’estremo tentativo: anche perché intanto l’eco delle baruffe era arrivata anche alle orecchie di  Draghi, che aveva dato ordine di concludere la faccenda senza ulteriori lungaggini. E quando ieri, in conferenza stampa, Malagò ha salutato il varo del decreto come “la fine di un calvario”, aveva l’aria di chi c’aveva comunque provato fino alla fine. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.