La vera svolta di Draghi oltre lo Zan: libero stato in libera Europa
C’è un tema più cruciale del ddl Zan affrontato da Draghi al Senato che riguarda una rivoluzione: la coincidenza storica tra vincolo esterno e interesse nazionale. La svolta italiana e il guaio ancora da risolvere sul Pnrr
Il passaggio più rilevante delle repliche offerte ieri pomeriggio da Mario Draghi al Senato, nel corso delle comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 24 e del 25 giugno, è stato quello in cui il capo del governo ha tenuto a ricordare alla Chiesa, parlando del caso del ddl Zan ma mantenendosi ben distante dall’esprimere valutazioni di merito, che “il nostro è uno stato laico, non è uno stato confessionale e quindi il Parlamento è certamente libero di discutere e di legiferare”. Ma se si ha la pazienza di riascoltare i numerosi interventi consegnati ieri pomeriggio a Palazzo Madama si noterà che tra i temi affrontati da Draghi ce n’è uno ben più interessante rispetto al futuro del ddl Zan, che riguarda una rivoluzione copernicana con cui sta facendo i conti in queste ore la politica italiana.
Draghi, ieri, lo ha detto accennando a un mezzo sorriso quando ha chiesto ai senatori di confrontare la differente atmosfera che si respira oggi rispetto a qualche mese fa sul tema dell’Europa (Lega: toc, toc) e lo ha fatto anche quando ha notato come ormai anche in politica estera gli stati che un tempo sognavano di fare da tutto soli (Francia: toc, toc) si sono resi conto di come la dimensione vera delle sfide internazionali non possa che essere di natura sovranazionale. Il presidente del Consiglio non lo ha potuto dire in modo esplicito ma ciò che oggi risulta incredibilmente è che uno dei capolavori del Pnrr è stato quello di aver imposto nel dibattito pubblico una sovrapposizione un tempo impensabile tra il vincolo esterno e l’interesse nazionale. La congiuntura astrale non è detto che durerà per sempre (molto dipenderà anche dal destino di Draghi) ma il dato interessante è che ciò che oggi chiede l’Europa (fare le riforme) è anche ciò che chiede l’Italia (che addirittura viene pagata per fare le riforme), con l’aggiunta che i vecchi nemici del vincolo esterno (meno Europa) hanno eletto a loro idolo un presidente del Consiglio (Draghi) che in modo plastico incarna la sovrapposizione perfetta tra lo stimolo dei vincoli esterni (la Commissione) e i doveri di un paese (le riforme).
Emma Bonino, sempre a Palazzo Madama, ieri ha giustamente ricordato che la sfida del futuro ora sarà riuscire a fare i compiti a casa (il crono programma prevede la presentazione entro luglio della legge annuale della concorrenza e della riforma fiscale, entro settembre la presentazione della legge sugli incentivi alle imprese e la semplificazione degli investimenti nel sud ed entro dicembre l’approvazione della riforma del processo civile, della riforma del processo penale, della riforma della giustizia tributaria oltre la presentazione della legge sulle semplificazioni ambientali). Ma come Bonino certamente avrà notato la particolarità della fase di oggi è che i compiti a casa che ha l’Italia sono compiti che hanno una natura molto diversa dal passato perché ad averli assegnati non sono stati i docenti (l’Europa) ma sono stati gli alunni (l’Italia).
La rivoluzione è dunque in corso ed è una rivoluzione che viene osservata con interesse nel resto dell’Europa (leggi: Ursula von der Leyen) non solo a causa della curiosità che esiste nel vedere il governo Draghi all’azione ma anche a causa di una consapevolezza precisa che esiste in Europa: un terzo dei fondi del Pnrr arriverà in Italia, tanta roba, e se l’Italia non si mostrerà all’altezza sarà difficile trasformare la stagione della condivisione dei debiti (bond) in una parentesi che si apre senza più chiudersi. Per mostrarsi all’altezza, però, all'Italia non basterà essere semplicemente puntuale nell’attuazione delle riforme. Servirà qualcosa di più. Servirà trasferire sulle vite dei cittadini il senso di questa rivoluzione. E servirà riuscire a dimostrare, nella pratica quotidiana, come il trasferimento delle risorse nel nostro paese avrà come obiettivo non solo la redistribuzione ma anche la creazione di ricchezza.
E su questo fronte, piccolo campanello d’allarme, il governo farebbe bene a non sottovalutare un problema segnalato ieri da Andrea Garnero, economista dell’Ocse, che ha ricordato come il Pnrr, a proposito di creazione di ricchezza, ha ancora un grosso buco nero che è quello che riguarda l’impatto che i fondi europei avranno sul mercato del lavoro.
La Commissione europea, pochi giorni fa, ha rivisto al ribasso alcune stime del Pnrr, per via di un calcolo aritmetico in base al quale ciò che viene considerato è l’impatto che sul mercato del lavoro avranno solo gli investimenti e non le riforme, e anche con questa logica l’Italia resta clamorosamente il fanalino di coda dell’Unione europea, con appena 1,3 posti di lavoro creati ogni milione di euro investito (Spagna e Italia, in pratica, finirebbero per creare con il Pnrr lo stesso numero di posti di lavoro, con la piccola differenza che gli obiettivi raggiunti dalla Spagna verrebbero raggiunti con un terzo delle risorse utilizzate dall’Italia).
Draghi ha ragione dunque a dire che in Italia l’atmosfera è cambiata. Tuttavia dovrebbe anche ricordarsi che l’atmosfera in Italia cambierà solo quando la politica userà l’Europa non come un ricco e formidabile bancomat ma come uno strumento utile ad affrontare fino in fondo i tabù di un paese (senza produttività il lavoro non si crea). E ora che il vincolo esterno non è più un problema, all’Italia resta solo da capire che per creare lavoro più che occuparsi di cosa può fare l’Europa per noi tocca occuparsi finalmente di cosa l’Italia può fare per se stessa. La strada imboccata è giusta, ma quella spia del lavoro, caro presidente, indica che qualcosa ancora non va. Claudio Cerasa