Benzema, Ronaldo, Mancini. L'altro show degli Europei: i fenomeni che domano la cultura del sospetto

Claudio Cerasa

Siamo abituati a vivere in un mondo incapace di separare i peccati della vita privata dalle virtù della vita pubblica. Invece nel calcio si può ancora giudicare le doti di un soggetto senza farsi influenzare dalla dittatura del sospetto

Siamo ormai abituati a vivere in un mondo incapace di separare i peccati della vita privata dalle virtù della vita pubblica e siamo ormai abituati a considerare del tutto normale che un semplice sospetto o una semplice accusa possano indurre un attore a essere cacciato a calci nel sedere da un set cinematografico, possano costringere un regista a espatriare dal proprio paese, possano spingere un tenore a considerare compromessa la propria carriera e possano indurre un editore a mandare al macero un libro già pubblicato. Siamo ormai abituati a considerare del tutto improbabile la possibilità che l’opinione pubblica sia in grado di separare le carriere delle persone distinguendo con intelligenza tra ciò che si fa e ciò che si è. E per questo bisogna rallegrarsi di cuore per un particolare spettacolo nello spettacolo osservato in questi giorni ai campionati europei di calcio. Lo spettacolo in questione non ha niente a che fare con le polemiche sui diritti (inginocchiarsi sì o no?) bensì con una questione più interessante che riguarda uno show che solo il mondo del pallone ormai sembra essere in grado di offrire: la possibilità di giudicare chi scende in campo solo per quello che fa in campo fregandosene di tutto quello che combina fuori dal campo. In questo senso, il tabellino della spettacolare partita giocata due giorni fa a Budapest tra Portogallo e Francia (doppiette di Benzema e Ronaldo) è un manifesto di questa eccezionalità. Ed è altamente probabile che il destino di Karim Benzema (che verrà processato dal tribunale di Versailles con l’accusa di complicità in tentato ricatto) e quello di Cristiano Ronaldo (contro cui una ex modella ha recentemente avanzato una richiesta di risarcimento danni da 65 milioni di euro per un’accusa di stupro risalente al 2009) sarebbero stati molto diversi se anziché calciatori fossero stati attori o registi o scrittori o tenori. Lo stesso discorso, se ci pensiamo, vale per la Copa America, il cui capocannoniere al momento è il brasiliano Neymar, osannato dal suo pubblico e dalla sua Nazionale nonostante un’accusa di aggressione sessuale che gli pende sulla testa. E lo stesso discorso, se ci si riflette, vale anche per la Nazionale italiana, il cui commissario tecnico, beniamino dei tifosi e anche degli sponsor, è diventato un semidio nonostante un processo in cui deve essere ancora giudicato.

 

Il processo riguarda una vecchia accusa di bancarotta fraudolenta legata al crac finanziario della società Img Costruzioni per la quale la procura di Roma, nel 2016, chiese per l’allora allenatore dell’Inter una condanna a tre anni e mezzo di reclusione. La richiesta di condanna fu respinta in rito abbreviato dal gup di Roma (il fatto non sussiste e non costituisce reato) ma la procura decise ugualmente di ricorrere in appello. E il fatto che l’allenatore della Nazionale possa svolgere il suo mestiere senza veder sovrapposte le sue vicende giudiziarie alle sue avventure sportive – sorte che invece non è capitata all’ex allenatore del Galles, Ryan Giggs, cacciato dalla panchina della sua Nazionale prima degli Europei a seguito di un’accusa per violenza sessuale – non dovrebbe essere considerato, come potrebbe fare qualche amico del Fatto quotidiano,  un osceno e inaccettabile beneficio riservato ai soliti privilegiati calciatori (ah, la casta) ma dovrebbe essere considerato semplicemente come un tuffo nella normalità (per essere considerati innocenti fino a sentenza definitiva non è necessario essere parenti di esponenti del M5s). Gli Europei sono dunque uno spettacolo per ciò che succede in campo ma lo sono anche  per una caratteristica forse unica all’interno dell’universo del cosiddetto show business: la capacità innata del calcio di separare i presunti peccati della vita privata dalle oggettive virtù della vita pubblica, giudicando le doti di un soggetto senza farsi influenzare dalla dittatura della cultura del sospetto. Viva il calcio, viva la normalità.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.