qui palazzo chigi
Draghi usa le riforme come antidoto al disfacimento grillino
Mercoledì il decreto su Alitalia, con Franco che esclude ripensamenti. Poi la Rai e le 400 nomine sul Pnrr (asse Mef-Chigi). La riforma degli appalti sarà quasi indolore, sulla giustizia invece servirà un tavolo politico. D'Incà: "Meglio governarli che subirli, i cambiamenti"
L’idea è un po’ quella della bicicletta, che ha tante più possibilità di restare in piedi quanto meno viene costretta a fermarsi. E insomma se Mario Draghi ha imposto un’accelerazione nell’agenda del governo, lo ha fatto non già con l’aria di chi vuole ignorare i travagli di una parte della sua maggioranza, ma col piglio di chi prova a superarli ribadendo l’urgenza delle cose da fare. Per questo la settimana prossima si affronteranno due dossier complicati. Mercoledì il Cdm dovrà licenziare il decreto che definirà il trapasso da Alitalia a Ita. Poi toccherà alla riforma delle norme sugli appalti, con un disegno di legge delega che coinvolgerà il Parlamento. Quindi, con qualche giorno di ritardo rispetto alle previsioni, si passerà alla questione della giustizia.
Insomma, un luglio che sarebbe tribolato anche in tempo di pace: figurarsi col M5s in stato di disfacimento avanzato, il Pd disorientato dallo smarrimento del “punto fortissimo di riferimento dei progressisti” e Salvini che ha buon gioco a infierire sulle debolezze dei rossogialli interpretando, lui, la parte del conciliatore che manda messaggi di distensione a Enrico Letta per un’intesa sul ddl Zan.
Il tutto, peraltro, complicato dalla più banale delle baruffe: quella intorno alle nomine. Non solo quelle che riguardano la Rai, ormai imminenti. Ma anche, più rozzamente, quelle che dovranno definire la ripartizione dei 420 funzionari che saranno arruolati attraverso il decreto “Reclutamento” di Renato Brunetta per lavorare all’attuazione del Pnrr. E siccome ogni ministero sta avanzando le proprie buone ragioni per rivendicare una quota di assunzioni, Draghi s’è convinto a utilizzare, come previsto dal decreto, il suo arbitrio: e dunque sarà un dpcm, scritto di concerto col Mef, che stabilirà la ripartizione dei tecnici, indicando anche quali saranno i dicasteri e i dipartimenti di Palazzo Chigi a poter ottenere le ambite unità di missione, col corredo di dirigenti (uno di prima fascia, tre di seconda) che si portano dietro.
Ed è sempre lungo l’asse privilegiato tra Piazza Colonna e Via XX Settembre che verranno limati i dettagli del decreto che regolerà la nascita di Ita. Il dossier, e la relativa trattativa con l’Unione europea, era stato preso in carico da Daniele Franco. Il quale, nei giorni scorsi, ha spiegato ai colleghi di governo che sì, alcune delle condizioni imposte da Bruxelles per garantire la discontinuità tra Alitalia e il nuovo vettore (soprattutto sulla convertibilità dei titoli di viaggio e degli abbonamenti) alla fine di una trattativa estenuante sono più severe di quanto il Mise di Giancarlo Giorgetti sperasse, ma ha richiamato tutti al realismo, spiegando che riaprire ora la negoziazione sarebbe un azzardo che nessuno vuole correre, specie per confermare l’avvio della transizione entro il 15 luglio e l’archiviazione di Alitalia entro il 15 ottobre.
La riforma del Codice degli appalti non dovrebbe impantanarsi nei litigi incrociati, invece. Un po’ perché alcune delle questioni più controverse sono già state risolte nel decreto “Semplificazioni”, e un po’ perché sul nodo potenzialmente più complicato, quello sui subappalti, Draghi ha un alibi abbastanza agevole. E infatti, quando il ministro Roberto Speranza gli ha spiegato, con l’animo di chi deve, che “su questo noi di Leu non potremo accettare compromessi al ribasso”, il premier ha fatto notare che a gravare sui malumori nostrani è una procedura d’infrazione da parte dell’Ue che ci chiede di superare la logica della soglia per i subappalti: che è stata infatti prorogata fino a ottobre, aumentata dal 40 al 50 per cento, e che però andrà abbandonata nel nuovo codice.
E però, se il vincolo esterno è un deterrente rispetto alle impuntature di parte, è anche vero che il premier teme che ora possa apparire meno stringente, e che insomma l’ottenimento del primo via libera da parte di Ursula von der Leyen sul Recovery possa far venire meno quella concordia forzata almeno in Cdm. Il che vale soprattutto per la più scivolosa delle riforme: quella della giustizia. Qui il terreno è davvero accidentato, specie sul fronte del penale. Al punto che gli emendamenti governativi che Via Arenula aveva garantito di inviare a Montecitorio, dove il disegno di legge staziona ormai da oltre un mese in attesa di una svolta, alla fine faranno il giro lungo, e prima di arrivare alla commissione Giustizia verranno discussi, o quantomeno vagliati, anche in Cdm. E se gli incapricciamenti grillini erano già preoccupanti fino a qualche giorno fa, figurarsi come devono apparire ora agli occhi di chi, come spiega il deputato del Pd Alfredo Bazoli, “farebbe fatica a trovare degli interlocutori, nel M5s, perché non si sa con chi parlare”. E infatti, se c’è chi, come il ministro Federico D’Incà, spiega ai colleghi deputati che “è meglio governarli i cambiamenti che subirli”, come a dire che arroccarsi a difesa dello stop alla prescrizione è inutile, c’è anche chi, come Alfonso Bonafede, uno che resta schierato a difesa di Giuseppe Conte e che giovedì sera si diceva “devastato” alla fine dello show di Beppe Grillo contro il fu Giuseppi (“Io non ci posso credere che ha detto queste cose di Conte”), continua a fare la faccia di chi non cede. La Cartabia alla fine un interlocutore ha demandato a Draghi il compito di trovare un compromesso. Che però andrà ricercato in un tavolo di concertazione politica a cui saranno convocati i capi delegazione delle forze di maggioranza. E lì ognuno dovrà assumersi le sue responsabilità.
L'editoriale dell'elefantino