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Così Draghi prova ad aggirare le convulsioni del M5s
Puntellare la maggioranza con le riforme da fare, e attendere lo sviluppo degli eventi: questa è la strategia di Palazzo Chigi di fronte alla zuffa tra Grillo e Conte. La sponda di Letta ("Cari 5s, il sostegno al governo è imprescindibile"). Le ambiguità di Di Maio
Alle sette della sera, mentre in Transatlantico imperversa la buriana grillina, a Palazzo Chigi ostentano un’indifferenza agli accidenti che travagliano il M5s che dà il senso di un’altra urgenza, di altre emergenze a cui star dietro. Perché Mario Draghi è dalle tre del pomeriggio che gestisce un difficile tavolo di negoziato sui sindacati spiegando il motivo per cui no, tornare indietro sullo sblocco selettivo dei licenziamenti non si può. Quanto alla zuffa tra Beppe Grillo e Beppe Conte, si resta in guardia, ma senza drammi.
Sarà che in fondo, a dover gestire relazioni fumose con quello che pure sarebbe il partito di maggioranza relativo, a Palazzo Chigi sono abituati da tempo. E l’ultimo caso s’è verificato proprio poche ore prima che lo scazzottata tra Conte e Grillo degenerasse. Perché Draghi, di buon mattino, s’era ritrovato a dover gestire l’ennesima escandescenza a cinque stelle. Coi parlamentari del M5s che minacciavano sfracelli e ammutinamenti dopo l’annunciata sospensione del cashback, e il ministro Stefano Patuanelli che, vistosi messo alla sbarra per non avere difeso la misura cara a Conte durante la cabina di regia della sera precedente (“Ma lo capite che sono rimasto solo, a chiederne il mantenimento?”), si vedeva costretto a mandare dispacci allarmati a Palazzo Chigi. Dove, però, si reagiva con una certa sorpresa allo stupore grillino, se è vero che Luigi Di Maio, dell’intenzione di Draghi di procedere allo stop del cashback, era già stato messo al corrente. “Quei tre miliardi che risparmieremo ci serviranno per finanziare una immediata riforma degli ammortizzatori sociali, necessaria per far fronte alla stagione dello sblocco dei licenziamenti”, aveva spiegato il premier, senza ricevere proteste formali.
Del resto, sia pure con diverse gradazioni di pensiero, su un punto Patuanelli e Di Maio sono concordi: che minacciare ogni volta di mandare a ramengo il governo, di togliere la fiducia a Draghi e rifugiarsi all’opposizione, non è una strategia che serva a granché. Sia perché, nell’ottica del ministro degli Esteri, “non è rinunciando a governare i processi che si riesce a indirizzarli a proprio favore”. Sia perché, nella tattica negoziale, il ministro dell’Agricoltura e capo delegazione del M5s sa bene che “l’armageddon non lo si può prospettare a ogni vertice di maggioranza”, e di vertici in cui dover alzare le barricate ne arriveranno non pochi, nei prossimi mesi: dalla riforma della giustizia, che arriverà a giorni in Cdm, alla revisione del reddito di cittadinanza o del decreto “Dignità”.
Solo che la razionalità della tattica, nel momento in cui Grillo rottama Conte, va evidentemente a farsi benedire. E al Senato, dove l’attrattività di una eventuale “cosa contiana” è assai maggiore, ci si affida già al pallottoliere: “E’ chiaro - ci dice un ex ministro - che mollando il M5s per seguire Conte, ci sentiremmo anche più liberi dai vincoli verso Draghi, e potremmo finalmente valutare ogni provvedimento caso per caso. E così con Beppe che elogiava il premier e Cingolani come ‘grillini’, resterebbero per paradosso proprio quelli che stanno già all’opposizione come Morra o la Lezzi”.
E allora non sorprende che Enrico Letta, pur ribadendo il suo rispetto di prammatica per il travaglio che scuote i suoi alleati, ci tenga però a indicare la linea di demarcazione: “Il sostegno al governo non è e non può essere messo in discussione”. E non è un caso se, dalle parti del Nazareno, c’è chi intravede perfino nuovi spazi di manovra: “Ci riprendiamo quello che è nostro”, dicono a proposito di “un elettorato grillino da riconquistare” citando Gomorra. Avvertimenti preventivi, insomma, per dire che no, la relazione privilegiata col M5s non è scontata, in caso di rottura col governo.
Anche se poi non si capisce chi, in effetti, dovrebbe rompere. Perché il rebus sta tutto qui: nel fatto che chi garantisce la linea filodraghiana, e cioè quel Grillo che due giorni fa è arrivato perfino a benedire le semplificazioni volute da Colao e Cingolani (“Perché non ci sarà nessuna transizione ecologica se per un’autorizzazione delle Soprintendenza ci vogliono sedici mesi”), in verità appare come l’elemento che destabilizza il quadro; e chi invece sarebbe in grado di tenere a bada le scompostezze grilline, ovvero Conte, resta tentato dalla traversata nel deserto dove finora vive e prospera, sola e beata, Giorgia Meloni. Forse sta in questo, la sicumera obbligata che di Palazzo Chigi: nella convinzione che nel M5s nessuno sarebbe neppure guidarla, una crisi di governo. E nell’entropia scombiccherata del grillismo che si contorce e si rattrappisce, si troverebbe sempre qualcuno a cui demandare il compito d’intestarsi la linea governista. Citofonare alla Farnesina.