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Vocabolario grillino

“Seicentesco” è l'insulto di Grillo a Conte. Ma è un complimento a ben vedere

Antonio Gurrado

Campanella, La Bruyère, Locke e Hobbes. Dall’uno vale uno al vincolo di mandato, nel Seicento il fondatore del Movimento può trovare molto della propria ideologia e più di una ispirazione

“Conte di Culagna” avrebbe potuto apostrofare Beppe Grillo il suo rivale, ripescando il personaggio fanfarone ma codardo, filosofo ma bacchettone, de “La sec chia rapita” di Alessandro Tassoni (1622). Invece l’Elevato ha preferito dargli addosso con quell’aggettivo – “seicentesco” – che chissà quando è diventato un insulto, sottintendendo forse che per rinnovare il Movimento avrebbe preferito uno statuto settecentesco, in marsina e codino. Difendere dagli strali di un ex comico il Gran Secolo di Cartesio, Shakespeare e Bernini è ridondante come paragonare “Insomnia. Ora dormo!” a “La vida es sueño” di Calderón de la Barca (1635). Vanno capite però le ragioni dell’accanimento su un secolo da cui il grillismo potrebbe trarre più d’una ispirazione.

 

Può il fautore della democrazia diretta rinnegare così il trattato di Osnabrück (1648) che riconobbe dopo secoli l’indipendenza della Svizzera? Può il volto ieratico della Casaleggio Associati screditare “quel grande Leviatano, quel Dio mortale cui dobbiamo pace e difesa giacché, per l’autorità conferitagli da ogni singolo membro della comunità, ha tanta forza da poter disciplinare col terrore la volontà di tutti”, come scrive Hobbes nel 1651? Può l’uomo che metteva alla gogna i giornalisti discostarsi da una stampa del 1629 in cui un rivenditore di gazzette viene allontanato da avventori che strillano “Non voglio udir più nuove nò no nò”? Non utilizzava la maschera di Anonymous, che poi sarebbe il Guy Fawkes squartato nel 1606? E i diari di viaggio di Dibba non riproducono in piccolo le spedizioni dei missionari gesuiti cui, dal 1653 in poi, Daniello Bartoli dedicò sterminati resoconti?

 

Certo, posso capire l’ostilità grillina nei confronti del secolo che vide la nascita del Vocabolario della Crusca (1612) e in cui i “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica”  di Newton (1687), rigettando le confutazioni basate su ipotesi, affossavano ogni possibile complottismo futuro. E a un fautore dell’ipse dixit come Grillo non so quanto faccia piacere leggere nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo Galilei (1632) che “ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa”. Il secolo della “Dissimulatione honesta” di Torquato Accetto (1641) mal si sposa con chi riesce tutt’al più ad articolare il trisillabo “o-ne-stà”.  Per non parlare della distanza significativa che intercorre fra il testo fondante del diritto internazionale, il “De iure belli ac pacis” di Grozio (1625), e un G20 presieduto da Giggino Di Maio. 

 

Nel Seicento però Grillo può trovare molto della propria ideologia, dall’uno vale uno al vincolo di mandato. C’è Campanella per il quale “quando gli uomini perdono l’amor proprio, resta il commune solo” (1604); La Bruyère che elogia “i cittadini che si istruiscono, studiano la Costituzione e il funzionamento del governo, diventano sottili politici, conoscono i punti di forza e di debolezza di un intero stato” (1688); Locke che definisce il legislativo “un potere fiduciario di deliberare in vista di determinati fini, quindi rimane sempre al popolo il potere supremo di rimuoverlo o alterarlo, quando vede che delibera contro la fiducia in esso riposta” (1689). C’è addirittura Tommaso Garzoni che ne “La piazza universale di tutte le professioni del mondo” (1616) preconizza i percettori di Reddito di cittadinanza, “alcuni che non tanto da inopia e da miseria tratti, quanto da pigrizia mera, abbandonate le arti e le scienze, si danno a una vita oziosa e negligente”. Purtroppo poi Hobbes nel “De Cive” (1642) indica fra le cause che dissolvono lo stato quelli che “l’ozio induce a discutere della cosa pubblica, con una lettura superficiale che li fa ritenere preparati ad amministrare gli affari più importanti”. 

 

Uno statuto secentesco non potrebbe che modernizzare il Movimento. “Grazie a voi abbiamo trascorso un quarto d’ora davvero cartesiano”, dice un personaggio de “La cantatrice calva” di Ionesco. Quello però era teatro dell’assurdo; questo anche, in effetti.

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