No, Draghi non è di destra
Perché la crisi del grillismo può contribuire ad alimentare una balla grande come una casa
Com’è potuto succedere che il partito più europeista che c’è abbia deciso di regalare alla destra l’agenda Draghi? Letta, M5s, Salvini e i primi 4 mesi di governo spiegati con un pazzo duello da cui dipende il futuro dell’Italia
Arrivati a questo punto della storia la domanda è semplice e forse anche doverosa, considerando quelle che saranno le conseguenze politiche del collasso grillino. E la domanda è questa: come può un governo europeista, anti nazionalista, anti sovranista, anti orbaniano, anti trumpiano, anti rigorista, con tratti keynesiani, con propensioni stataliste, con pulsioni ambientaliste, con poche timidezze sull’uso debito pubblico, con un rapporto simbiotico con i sindacati dei lavoratori e con un approccio non trucista sull’immigrazione essere spacciato per un governo di destra, dominato da pericolosi liberisti nemici del popolo interessati esclusivamente a far prevalere le logiche del mercato su ogni altro interesse nazionale? La nostra piccola premessa potrebbe apparire come il frutto di un semplice ragionamento di fantasia. Ma a quattro mesi tondi tondi dalla nascita del governo Draghi si può dire senza paura di essere smentiti che il posizionamento delle squadre presenti nella maggioranza è lì a mostrarci una verità difficile da negare, che l’auto vaffa day grillino contribuirà a rendere ancora più evidente. Da una parte vi è una destra nazionalista desiderosa sempre di più di intestarsi l’agenda Draghi pur essendo su molti fronti agli antipodi dello stesso Draghi (martedì, in un’intervista alla Stampa, Salvini ha affermato di essere il vero garante di questo governo).
Dall’altra parte vi è invece una sinistra europeista che pur trovandosi su molti fronti sulla stessa lunghezza d’onda di Draghi sembra essere desiderosa di smarcarsi a colpi di bandierine dall’agenda economica del presidente del Consiglio (dalle tasse fino alle battaglie sui diritti passando per le polemiche contro le nomine al Dipe di alcuni economisti di area liberista). Trasformare il governo Draghi in un governo di destra è un’operazione spericolata tentata da un pezzo non irrilevante di Pd capeggiato dal vicesegretario Giuseppe Provenzano (Draghi è ostaggio dei liberisti!) ed è un’operazione che con ogni probabilità verrà agevolata anche dalle crescenti divisioni grilline che verosimilmente contribuiranno a mettere di fronte agli occhi del presidente del Consiglio una maggioranza di governo composta da un centrodestra coeso, che farà di tutto per parlare sempre più con un’unica voce, e da un centrosinistra diviso, che farà invece di tutto per parlare con il numero più elevato di voci possibili.
L’operazione in questione, però, non è solo un’operazione politicamente discutibile, ma è un’operazione culturalmente miope, costruita da chi non si rende conto di un fatto che dovrebbe essere invece alla luce del sole. E il fatto è presto detto. Il governo Draghi non è, come vorrebbe far credere Salvini, un governo di destra, ma è un governo che la destra nazionalista sta provando a intestarsi in modo strumentale. Salvini, come è evidente, non ha alcuna intenzione di rivendicare l’agenda economica del governo, cosa impossibile essendo l’agenda Draghi un’agenda europeista e antitetica all’agenda di due beniamini di Salvini come Trump e Orbán, ma ha al contrario l’obiettivo di utilizzare il governo Draghi come un cacciavite utile a smontare pezzo per pezzo i bulloni che tengono uniti il Pd e il M5s. La decisione di Salvini di intestarsi un’agenda che non condivide fino in fondo nasce dunque non da un’adesione culturale all’agenda Draghi ma nasce piuttosto da una precisa consapevolezza da parte del leader della Lega: più il centrodestra riuscirà a far sembrare il governo Draghi come un successo della destra (Draghi al Quirinale!) e più i nemici del centrodestra cercheranno di fare qualsiasi cosa pur di non apparire come i semplici portatori d’acqua di un governo a vocazione liberista (un giorno poi la sinistra del Pd dovrà spiegarci in che senso essere liberisti significa essere salviniani). La questione politica interessante da analizzare non riguarda dunque il fatto che l’agenda Draghi sia coincidente con l’agenda Salvini (sulle riaperture, il leader della Lega si è comportato più da mosca cocchiera che da dettatore di un’agenda). Ma riguarda il fatto che per il centrosinistra allontanarsi dall’agenda del BisConte (Conte o non Conte) sembra rappresentare ancora oggi un trauma difficile da superare.
E la conseguente necessità da parte del Pd di salvaguardare il suo alleato dai buffetti ricevuti da questo governo (Draghi, in questi mesi, ha inferto diversi schiaffi al grillismo, passando da Arcuri a Figliuolo, da Borrelli a Curcio, da Palermo a Scannapieco, da Bonafede a Cartabia, ma lo ha fatto non perché ce l’ha con il M5s ma perché è il M5s ad avercela spesso con la realtà) ha costretto il Partito democratico a cercare, proprio come voleva Salvini, diverse strategie utili a evitare che l’agenda Draghi possa essere considerata come un’agenda sovrapponibile a quella del Pd. Individuare un proprio spazio autonomo in un governo di larghe intese è fisiologico ed è naturale che ogni partito faccia di tutto per distinguere il proprio perimetro da quello degli avversari con cui è provvisoriamente alleato. Ma la difficoltà che ha il Pd a fare quello che sarebbe naturale fare per un partito pienamente europeista, come è quello guidato da Enrico Letta, denota un problema che appare molto più grande e che nasce da un particolare investimento emotivo fatto, almeno finora, dalla leadership democratica, che ha trasformato un’esperienza transitoria, passeggera, d’urgenza, come era quella del governo Conte, in una esperienza formativa, utile a fotografare non uno stato di necessità ma uno stato di identità. Il centrosinistra di oggi, di fronte alla stagione di Draghi, sembra essere interessato a ricercare più le ragioni che permettono di dire “epperò noi siamo diversi” che a trasformare in successi del Pd i successi del governo (anche se, come dovrebbe essere evidente, chiedere più Europa, più concorrenza, più efficienza, più produttività, più garantismo e cercare di combattere le diseguaglianze investendo sulla creazione di ricchezza e non solo sulla redistribuzione significa infilare un dito nell’occhio a tutti i partiti populisti). Il Pd lo fa non perché non veda quanto l’agenda Draghi sia simile all’agenda che dovrebbe avere il Pd (in quattro mesi, Draghi ha ricevuto cinque volte tutti insieme i capi dei sindacati dei lavoratori italiani, esclusi gli incontri singoli avuti con ciascun sindacalista, e una sola volta ha invece ricevuto il capo del sindacato degli imprenditori, il dottor Carlo Bonomi) ma lo fa perché sa che i successi del governo rappresentano spesso degli insuccessi intollerabili per i propri alleati. E sa che intestarsi quei successi creerebbe dei problemi ulteriori nel rapporto con i propri claudicanti alleati (al momento impegnati a organizzare vaffa day non più contro gli avversari ma contro se stessi).
Tutto è comprensibile, naturalmente, ma a quattro mesi dalla nascita del governo Draghi il paradosso resta. E insieme a esso restano alcune domande alle quali il Pd forse dovrebbe provare a rispondere. Primo: come può un partito europeista, anti nazionalista, anti sovranista, anti orbaniano, anti trumpiano, anti rigorista, con tratti keynesiani, con propensioni stataliste, con pulsioni ambientaliste accettare che il suo governo diventi giorno dopo giorno il governo degli altri? E in subordine: fino a quando un partito che ha l’agenda Draghi nel suo Dna potrà giocare al ribasso con la sua identità solo per non scontentare i propri alleati? La barriera architettonica più grande tra le persone, per citare Giuseppe Conte, è l’intelligenza e oggi, per come si stanno mettendo le cose, tra il Pd e il M5s non sembra esserci questa barriera. E anche per questo, più tempo ci metterà il Pd ad affrontare questo tema e meno probabilità avrà di usare l’autostrada del governo Draghi non per rimpiangere il passato ma per guardare al futuro.