Il retroscena
"Ora capo M5s per acclamazione". Conte rivede le carte. Caos su Rai e giustizia
Intanto nella vacanza di potere i grillini non sanno che pesci prendere sulla riforma Cartabia del processo penale e sul nuovo cda di viale Mazzini
L'ex premier teme la leadership azzoppata e chiede ai saggi di cambiare la formula dell'elezione: saranno i big a nominarlo e i militanti a ratificarlo
“Ne parliamo un’altra volta”. Bisogna partire da lontano, da Dario Franceschini e da questa risposta fatta cadere davanti alla domanda di Piero Fassino. Si parlava del rapporto, ormai mitologico, tra il Pd e il M5s. Il ministro della Cultura, durante una riunione di AreaDem e cioè la corrente che guida, oggi ha preferito glissare a chi gli chiedeva “che fare?” con i grillini.
Il fatto è che non lo sanno nemmeno i grillini che ne sarà di loro. Di sicuro, questo sì, c’è una vacanza di potere generata dal “raffreddamento” della vertenza tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. I sette “saggi”, nominati per smussare le asperità, hanno bisogno di tempo, dicono.
Ma nell’andirivieni di riunioni su Zoom per mettere d’accordo il quasi leader e il vecchio Capo i problemi aumentano. Per esempio, nell’ultima versione dello statuto che Conte ha messo a disposizione dei “saggi” ha fatto aggiungere un piccolo particolare che all’inizio aveva cancellato: vuole essere eletto per acclamazione dagli iscritti, perché la sua candidatura dovrà essere lanciata prima dai vertici parlamentari (capigruppo, ministri, esponenti di sottogoverno) e solo dopo sarà ratificata dalla base. Chiamasi unanimismo.
Particolari forse, ma che la dicono lunga su quanto il puntiglio dell’ex premier continui a giocare un ruolo importante, in questa noiosa – passati i primi frizzi e lazzi – partita a scacchi. Grillo ha rinunciato, o sarebbe pronto a farlo, a una serie di questioni non banali: la gestione della comunicazione, l’assunzione del personale nel partito, la scelta dei consulenti (leggi: avvocati e professionisti) e infine la scelta per cooptazione di tutti gli organismi dirigenti del “nuovo Movimento”.
Il comico insiste solo per continuare a essere il “custode dei valori politici” del M5s. Che detta così vuol dire tutto e nulla, ma che nella pratica, visto anche il personaggio, lo manterrà al centro della scena. A partire dal grande gioco del Quirinale. Questo è lo scenario, placido e fluido allo stesso tempo. I sette consiglieri conoscono le richieste di entrambi gli sfidanti e presto porteranno, sempre a entrambi, la soluzione che hanno trovato.
Grillo vorrebbe che a esprimersi sul nuovo statuto fossero anche, alla fine, i parlamentari M5s. Gli stessi che in queste ore ondeggiano a destra e a sinistra, non hanno punti di riferimento. Sono consapevoli di non essere interlocutori credibili dentro la maggioranza dove abitano. Soprattutto questi peones non sanno a chi chiedere cosa stia succedendo. Ma hanno una convinzione: con la scissione i posti per una rielezione saranno ancora meno rispetto a un Movimento unito. Chi sta con Conte, a partire dagli ex ministri del governo giallorosso dice che “il problema sono i tempi, ma anche il coraggio di Giuseppe”. Più scorre la clessidra e più l’ex premier rischia di fermarsi alla categoria arbasiniana di bella promessa, senza nemmeno percorrere gli altri due gradini. Il menù propone: leadership cotta a fuoco lento. Un pericolo evidente anche per il diretto interessato sul quale peseranno sempre i giudizi politici e umani di Grillo, anche davanti a una probabile tregua (“Non ha visione, non ha capacità”, parole incise sul blog del comico, mica in un retroscena a pagina quattro). E nel frattempo regna il caos, a essere buoni, se non il caso. Esempio: chi indicherà il M5s nel cda della Rai? Questa volta, come si sa, non ci saranno le vacche grasse del 2018 per decidere gli assetti della tv pubblica.
Il grosso del lavoro lo farà Mario Draghi. Ai grillini spetterà domani indicare e votare alle Camere il loro componente del consiglio d’amministrazione. Tre i nomi, tre avvocati: Luigi Di Majo (già, si chiama così), Antonio Palma e Paolo Favale. A chi spetterà l’ultima parola? In teoria a Vito Crimi, che è capo politico al servizio del contismo. Ma essendo una faccenda comunque non banale è probabile che alla fine tocchi a Luigi Di Maio dire l’ultima parola. D’altronde è il ministro degli Esteri il “riferimento fortissimo” di Draghi nel M5s, non il capodelegazione Stefano Patuanelli. E aspettando Godot è pronto a scoppiare il caso della riforma della giustizia penale. In questo interregno dove “due valgono tutti, e nessuno” sembra farsi largo la posizione dialogante della sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina rispetto a quella intransigente di Alfonso Bonafede. Comunque vada ci sarà da ridere.