Per un'Italia migliore, senza dogmi
Il post pandemia e le scelte del governo Draghi. La ripresa e la prosperità, le libertà individuali e il ruolo dello stato spiegati dal ministro per la Pubblica amministrazione. Manifesto per una nuova economia sociale di mercato
Il proclama sconcertante di 150 economisti accademici contro i due bravi colleghi, Puglisi e Stagnaro, recentemente nominati nel Nucleo tecnico della presidenza del Consiglio, rei di “ultraliberismo”, mi ha fatto rivedere all’opera quei metodi dogmatici e di potere che anche io avevo subito da giovane studioso, desideroso unicamente di esprimere il mio libero pensiero attraverso il mio lavoro. Ma la diatriba, di cui il paese non sentiva il bisogno, ha un merito che francamente non meriterebbe di avere. Costringe a rendere ragione delle scelte che il governo – di cui mi onoro di far parte – sta compiendo. Il “formidabile pragmatismo” di Mario Draghi (definizione del direttore Cerasa) non significa affatto fiducia cieca nel mercato e rinuncia a ideali umanistici e persino, dal mio punto di vista, socialisti. Ma è esercizio dell’ideale e della dottrina misurandone l’efficacia nell’esperienza. Qui ne racconto la mia versione. Che potrei intitolare “nuova economia sociale di mercato”, consapevole che quello che enuncerò è un abbozzo. Un’ipotesi per un dibattito. Niente dogmi, please.
Eventi di portata planetaria come le pandemie obbligano a ripensare i confini delle teorie economiche e sociali sino a quel punto predominanti, da destra come da sinistra, al fine di elaborare, senza timore di contaminazioni, superando le rispettive pigrizie e idiosincrasie, nuovi modelli organizzativi della società.
La pandemia è passata? Non mi permetto profezie. Di certo oggi possiamo percepire i segnali di una ripresa. La storia non finisce, dipende da scelte dei governi che assecondino la voglia di vita nuova dei popoli, il facilitare e direi il sospingere, incanalando e promuovendo, una vigorosa ripresa economica che per assumere il nome di prosperità dev’essere anche accompagnata dal sogno di un’Italia più giusta, che non lasci indietro nessuno.
Ed eccoci al punto. In quale direzione vogliamo e possiamo andare? Cosa vogliamo essere tra 10 anni? Soprattutto – e qui siamo al nostro specifico tema – avendo riaperto alla presenza dello stato una parte dello spazio economico nello stesso tempo in cui abbiamo compreso la fragilità del modello di produzione globale, quale dottrina può nei prossimi anni ispirare l’azione politica?
Mi piace partire per questa riflessione da un’analisi fatta diversi anni fa a quattro mani con il compianto Antonio Preto. Già allora ci era chiaro che compito della politica è quello di gettare lo sguardo oltre l’orizzonte di breve periodo, sempre più spesso influenzato da dinamiche elettorali opportunistiche che, il più delle volte, producono cattiva spesa pubblica e, ancor più colpevolmente, lasciano imprese e famiglie nella confusione e indeterminatezza di leggi che cambiano e si sovrappongono, di azioni di policy che si contraddicono, di rattoppi normativi che non danno certezza e credibilità e impediscono di strutturare quel contesto ordinato e chiaro che permette di promuovere l’iniziativa privata e una crescita, tanto economica quanto sociale, della società.
L’incertezza produce due tipi di reazione: una, naturale, insita nel nostro istinto ancestrale di sopravvivenza, e che potremmo definire “conservatrice”, per cui davanti all’ignoto si tende a preferire lo status quo, non solo materialmente ma anche nell’elaborazione del pensiero. L’altra, più radicale, che potremmo definire “riformatrice”, tende a moderare le pulsioni più estreme, cercando di introdurre il meglio del nuovo e di preservare gli elementi di stabilità dell’antico. Storicamente la seconda ha sempre rappresentato la migliore risposta per governare l’incertezza. Anche se non è, quasi mai, la risposta più immediata.
Nel contesto economico di cambiamento successivo alla fine della Guerra fredda e al crollo dei muri, l’atteggiamento di conservazione ha significato dazi e dogane, autarchia, sussidi, e chiusura al mercato. A questo ha risposto l’approccio riformista liberale, che si fonda, invece, sull’economia aperta e la riduzione delle barriere commerciali, tariffarie e non tariffarie, sulla concorrenza tra imprese e ordinamenti, sulle liberalizzazioni e le privatizzazioni, sugli investimenti in ricerca, innovazione, formazione permanente, in infrastrutture e riforme di sistema. Insomma, più mercato e migliori, nonché stabili, regole. Senza, per altro, rinunciare alla presenza di uno stato, che non invada spazi riservati al mercato, ma che con questo sappia interagire.
Tuttavia, dopo una crisi finanziaria e una crisi pandemica in poco più di un decennio, quella parte di mercato e società cosmopolita che ha al tempo abbracciato gli ideali liberali su scala mondiale si trova oggi a giocare, nello scenario post Covid, un ruolo essa stessa di natura conservatrice, agganciata com’è agli schemi di un mondo globale le cui certezze sono state spazzate via dalle chiusure imposte dai governi per il contenimento della pandemia.
Potremmo dunque provocatoriamente affermare che il pensiero occidentale oggi sembrerebbe oscillare tra due “conservatorismi”, quello di matrice spiccatamente socialista, e quello di natura liberale. Non un buon presupposto per elaborare la nuova, necessaria visione della società post-pandemica.
L’economia sociale di mercato: la dottrina
che ha plasmato il secondo dopoguerra in Europa
Fortunatamente però tra economia pianificata ed economia liberista pura esiste una terza via rappresentata dall’economia sociale di mercato, che è il modello economico cui si è ispirato il processo di integrazione europea. L’economia sociale di mercato, “Soziale Marktwirtschaft”, ha avuto la sua definizione, la sua applicazione pratica e la sua consacrazione in Germania (il cosiddetto “modello renano”).
L’economia sociale di mercato fu teorizzata dalla “Scuola di Friburgo” agli inizi del secolo scorso, ed ebbe come massimi esponenti Walter Eucken e Andreas Muller-Armack (quest’ultimo fu l’inventore del termine “economia sociale di mercato”). Essi presero a riferimento i principi classici dell’economia di mercato espressi in particolare da Adam Smith, considerati come condizioni strutturali all’interno delle quali la giustizia sociale e la solidarietà potessero realizzarsi.
In pratica, l’economia sociale di mercato (dove l’aggettivo “sociale” non deve essere inteso come sinonimo di “socialista”, ma in contrapposizione all’economia socialista dirigista e pianificata) opera un intreccio equilibrato tra le teorie del liberalismo classico ed elementi sociali e di regolazione pubblica. Essa si fonda sulla centralità dell’uomo rispetto allo stato, caratterizzata da una forte responsabilità individuale.
La concezione morale dell’economia sociale di mercato si fonda su tre principi cardine: il principio d’individualità, che origina dall’idea liberale della libertà individuale; il principio di solidarietà, secondo il quale ogni essere umano è inserito in una società interdipendente che lo obbliga a combattere le ingiustizie; il principio di sussidiarietà, come regola istituzionale che pone in corretto rapporto individualità e solidarietà. Compito della regolazione pubblica è quello di limitarsi ad assicurare i diritti individuali e garantire l’assoluta centralità ai cittadini. In concreto ciò significa che tutto ciò che può essere fatto da un individuo deve essere fatto da lui e non dallo stato, che non deve pesare sui cittadini, né con oneri amministrativi eccessivi, né con troppe tasse, perché esse vanno a detrimento del fattore lavoro, oltre che limitare la libertà di disporre dei redditi accumulati.
In questa visione esistono tuttavia meccanismi di sicurezza sociale controllati dallo stato, che hanno lo scopo di integrare e riequilibrare l’azione del mercato compensando i suoi eventuali fallimenti, in un intreccio di obiettivi economici e sociali che dipendono l’uno dall’altro, avendo come riferimenti la stabilità monetaria e la sostenibilità di bilancio.
Secondo i teorici dell’economia sociale di mercato, questo sistema economico offre maggiori opportunità ai consumatori e motiva gli operatori economici a puntare sull’innovazione e il progresso tecnologico, distribuendo equamente redditi e profitti. Condanna, allo stesso tempo, l’accumulazione di un eccessivo potere di mercato, che prende la forma di monopoli e oligopoli.
In questo contesto lo stato detiene un ruolo fondamentale nel garantire l’ordinato svolgersi delle dinamiche del mercato e dei principi su cui l’economia sociale di mercato si fonda. Non a caso gli esponenti della Scuola di Friburgo sono chiamati anche “ordoliberali”, i “liberali delle regole”.
L’economia sociale di mercato esige istituzioni statali forti e autorevoli, autorità regionali e locali altrettanto legittimate, secondo i principi di sussidiarietà e responsabilità, e altrettanto forti autorità per la tutela del mercato: una banca centrale indipendente e un’autorità per la lotta contro i cartelli ed i monopoli.
Messa in atto dall’economista di Friburgo Ludwig Erhard nel 1950, l’economia sociale di mercato permise alla Germania di raggiungere la piena occupazione e il modello celebrò, in soli cinque anni, il suo successo. Tuttavia a quel tempo permanevano importanti squilibri sociali che accesero un dibattito sui compiti da assegnare allo stato e che indussero a ripensare le politiche allora esistenti.
Un elemento che caratterizzò, in particolare, la seconda fase del “capitalismo renano” fu la cooperazione tra i lavoratori e i datori di lavoro, che si espresse nella contribuzione paritaria al sistema di Welfare, pensioni, cassa malattia, ammortizzatori sociali. La partnership tra capitale e lavoro trovò la sua massima espressione nella Mitbestimmung (cogestione), che si estese presto a tutte le attività economiche ed elevò a pari dignità i due principali fattori produttivi dell’economia, capitale e lavoro, nella gestione dell’impresa.
La prima crisi economica tedesca nella metà degli anni Sessanta spinse, tuttavia, alle dimissioni del cancelliere Erhard e favorì il formarsi di una Grosse coalition tra Cdu e Spd. Ciò condusse a una nuova sintesi tra la teoria liberale della scuola di Friburgo e l’ideale keynesiano di stimolo della domanda interna, da attuarsi attraverso l’intervento pubblico nell’economia. Questa nuova versione dell’economia sociale di mercato fu chiamata “Globalsteuerung” (stimolo generalizzato), a significare che la politica economica e finanziaria avrebbero dovuto occuparsi esclusivamente delle macro decisioni, mentre il mercato e gli imprenditori avrebbero dovuto occuparsi delle decisioni micro.
La “Globalsteuerung” sembrò ottenere grandi successi nel combattere la crisi economica, in un sistema ancora poco globalizzato, ma non consentì, tuttavia, di procrastinare nel tempo i risultati economici raggiunti. La successiva crisi economica internazionale degli anni Settanta portò, infatti, a un aumento della disoccupazione, dell’inflazione e del debito pubblico e alla diminuzione del pil. E, dunque, si dovette mettere mano a una revisione della “Globalsteuerung”, cui però la coalizione tra Spd e Liberali, nel frattempo al potere, sotto la guida prima di Willy Brandt e poi di Helmut Schmidt, non era attrezzata.
La terza fase dello sviluppo dell’economia sociale di mercato coincise, quindi, con l’avvento al potere della coalizione di centro-destra (Cdu/Csu Liberali) guidata da Helmut Kohl, la quale determinò uno spostamento dell’equilibrio dell’economia sociale di mercato più verso la componente “mercato”. Il successo di questo nuovo modello fu notevole, legato anche al buon andamento dell’economia mondiale e alla crescita derivante dal processo d’integrazione europea (Programma per il mercato unico di Delors).
La successiva riunificazione tedesca, agli inizi degli anni Novanta, si realizzò dunque in una fase di espansione economica e di stabilità. Nonostante ciò, la struttura e la composizione della società tedesca, cambiata rapidamente, e la debolezza dell’economia dei Land orientali, ebbero un impatto tremendo sul sistema di Welfare. I tedeschi, impauriti e disorientati, attribuirono la responsabilità di tutto questo a Kohl e chiamarono a succedergli il socialdemocratico Gerhard Schroeder, con la sua coalizione rosso-verde, che parve più rassicurante.
La sinistra non poté esimersi dal mettere mano alla riforma del sistema sociale in un contesto economico mondiale globalizzato che impose liberalizzazioni, privatizzazioni, una riduzione dei costi di produzione e dell’intervento statale, un ridimensionamento della Mitbestimmung e una riforma del Welfare (il piano Hartz per la riforma del mercato del lavoro). Dovette sciogliere i nodi della sua social welfare economy e del suo approccio consensuale, poiché essi avevano indebolito la concorrenza e il mercato. Per fare questo c’era bisogno di un nuovo sistema di regole, a tutti i livelli. Si ebbe così la quarta fase del processo di sviluppo della economia sociale di mercato, con la vittoria elettorale dell’alleanza tra Cdu e liberali. Ebbe, così, inizio l’era di Angela Merkel, nella quale l’economia sociale di mercato tornò a rappresentare un elemento centrale del programma del centro-destra tedesco. Quanto è stato fatto durante il cancellierato Merkel è sotto gli occhi di tutti.
E’ un ritorno alle origini umanistiche del Rinascimento. E allo spirito sorgivo della rinascita europea dopo il 1945. Roepke, come Friedrich von Hayek, aveva il proprio maggiore riferimento nell’economista austriaco Ludwig von Mises. Mises era stato il primo ad avere compreso, addirittura negli anni Venti, la natura del socialismo e i suoi problemi. Sarebbe fallito. La tesi di Mises si è confermata giusta, nel 1989. Non era possibile, sotto il comunismo, fare piani affidabili. Il controllo politico generava inefficienza.
Il regime ha retto finché ha potuto, ma poi è crollato. Di contro, l’economia sociale di mercato è di mercato perché è sociale: perché pensa al bene dell’uomo. Nel far questo, si adatta.
L’economia sociale di mercato si adatta
In effetti la breve analisi storica comprova come questo modello abbia mostrato grande flessibilità e capacità di adattarsi ai cicli economici: esso ha consentito di volta in volta l’incremento dell’interventismo statale e dell’elemento sociale, o il prevalere di un modello più marcatamente mercatista, senza, peraltro, che ciò abbia mai significato un mutamento della sua natura e, dunque, senza che sia mai venuta meno la centralità della persona.
Negli anni, i principi dell’economia sociale di mercato si sono dimostrati un’affidabile guida per la politica economica tedesca e hanno reso la Germania la superpotenza che tutti noi conosciamo, fondendo dinamismo economico e partecipazione sociale.
Cosa fondamentale, l’economia sociale di mercato ha consentito agli individui di perseguire i propri obiettivi all’interno di un ambiente normativo stabile. Il suo successo è fondato sulla libertà, sull’iniziativa personale e sulla creatività di tutti i cittadini. La produttività dell’economia di libero mercato ha creato, inoltre, lo spazio finanziario necessario per garantire una politica sociale solidale a favore dei meno abbienti. Questa adattabilità è decisiva oggi, in una fase nella quale richieste di protezione e aiuto pubblico provengono da ampi strati della società, colpiti e impauriti dalla crisi economica indotta dalla pandemia.
L’economia sociale di mercato e l’Italia
L’economia sociale di mercato è tutt’altro che estranea al nostro paese. Uno dei suoi principali teorici fu Wilhelm Röpke, un economista che unì la difesa del capitalismo liberale a un’aperta fedeltà ai valori della tradizione religiosa. I suoi scritti sono tra i più rappresentativi di quell’alleanza tra liberalismo e morale cristiana che per lungo tempo segnò la cultura e la vita politica tedesche e di cui furono ugualmente fautori in Italia figure come don Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi e Benedetto Croce, che con Röpke ebbero legami profondi.
Quello che Einaudi e De Gasperi, supportati dagli industriali guidati da un altro cattolico liberale, Angelo Costa, cercarono di applicare in Italia nel primo dopoguerra furono, appunto, i principi dell’economia sociale di mercato, che influenzarono la parte della Costituzione dedicata ai rapporti economici. In particolare, gli articoli 41, 42 e 43 si ispirano chiaramente ai principi dell’economia sociale di mercato.
Alla teoria tuttavia non corrispose la prassi, a causa delle profonde contraddizioni politiche che riflettevano le lacerazioni sociali del paese. Da questo punto di vista lo scontro che si verificò agli inizi degli anni Cinquanta fu rilevatore del contrasto che esisteva all’interno dello stesso blocco industriale. Con una parte del ceto imprenditoriale, soprattutto a Milano, come ricorderà più tardi Ugo La Malfa (che fu il principale sostenitore del progetto), ferocemente contrario. Non fu quindi per caso che nel Consiglio dei ministri che varò la decisione dell’apertura agli scambi si verificò una forte spaccatura. Dichiararono la loro contrarietà alla liberalizzazione degli scambi i ministri dell’Industria (Giuseppe Togni), dell’Agricoltura (Amintore Fanfani), degli Interni (Mario Scelba), del Lavoro (Leopoldo Rubinacci), mentre a favore, oltre al presidente del Consiglio (Alcide De Gasperi), si dichiarò il ministro delle Finanze (Ezio Vanoni) e anche il governatore di Banca d’Italia, Donato Menichella. La stessa adesione dell’Italia al Mercato unico europeo nel 1951 (Trattato Ceca) e 1957 (Trattati di Roma) fu tutt’altro che scontata da parte di ampi strati del ceto imprenditoriale nazionale.
Questa frattura non si ricompose negli anni successivi, quando il miracolo economico italiano aveva ormai esaurito ogni forza propulsiva. Molte delle riforme del periodo precedente furono frutto di una congiuntura particolare. L’Agip resistette alle pressioni di un suo smantellamento, solo grazie alla presenza di Enrico Mattei, che fu costretto a entrare in politica, costruendo, in seno alla Dc, una sua corrente. La nazionalizzazione dell’energia elettrica fu il risultato di un duro scontro che mobilitò intellettuali e forze politiche. L’indennizzo pagato per l’esproprio fornì i capitali necessari per la nascente industria chimica. Il piano Senigallia per la siderurgia (pubblica) fu la premessa per il rilancio dell’industria meccanica. Mentre Giulio Natta, ingegnere chimico, conquistava il premio Nobel per i suoi lavori sui polimeri.
La conclusione di questo lungo processo portò alla formazione del centrosinistra e ai primi tentativi di programmazione economica. Ma fu allora che le forze ostili fecero di tutto per non dare continuità all’esperimento e svuotare quella formula politica di ogni significato progressista. L’ultima grande riforma – una sorta di canto del cigno – fu lo Statuto dei lavoratori, del Ministro Brodolini. E’ difficile dire se una diversa lungimiranza avrebbe garantito un destino migliore. E, invece, dopo la stretta creditizia del 1964 – episodio per lunghissimo tempo negato da Banca d’Italia – furono le regole non scritte del conflitto sociale a prendere il sopravvento. Ed ecco allora la guerra del Vietnam, il maggio francese, la rivolta studentesca e infine l’autunno caldo della fine degli anni Sessanta.
Data a quel periodo l’esasperazione statalista, con l’acquisizione su spinta sindacale di aziende decotte, con una collezione di fabbriche e attività le più diverse, dalla produzione di panettoni a quella della pasta. Responsabilità individuale e sussidiarietà – che sono le colonne dottrinali dell’economia sociale di mercato - rimasero parole sconosciute.
Soltanto negli anni Ottanta e Novanta, come avvenne in Germania, anche in Italia, soprattutto per la pressione del vincolo esterno europeo, si attuò una politica di privatizzazioni (anche se non di liberalizzazioni) che hanno ridotto di molto l’interventismo statale. Politiche necessitate ma di sicuro virtuose, pur se in certi casi non è senza fondamento la percezione di una svendita, che consentì con l’uso di denaro pubblico l’accaparramento di tesori da parte di quello che Guido Carli aveva chiamato “capitalismo straccione”. In seguito, di modello economia sociale di mercato diventa complicato parlare per l’Italia, poiché il vincolo di finanza pubblica, prima declinato rispetto al percorso di adesione all’euro, e poi di gestione della crisi finanziaria, ha condizionato lo sviluppo della politica economica italiana per i primi due decenni del XXI secolo.
Nonostante il lungo intervallo di tempo trascorso, si sta oggi determinando un contesto politico in cui si è aperta la discussione su un nuovo modello di governance degli scenari globali, insieme alla necessità di dover gestire, tramite adeguate risorse finanziarie pubbliche, le conseguenze economiche e sociali della pandemia. Dopo quasi due decenni di “sospensione della volontà” indotta dalla crisi finanziaria possiamo dunque finalmente riprendere quell’antico discorso fatto di sviluppo e di riforme che si rispecchia nell’economia sociale di mercato, sia a livello europeo, sia a livello nazionale.
Dove va l’Europa dopo la pandemia?
Il punto di partenza è riconoscere che i vincoli di finanza pubblica possono (e devono) essere utilizzati in maniera flessibile durante la pandemia, ma non sono superati, in Italia come in altri paesi Ue. Il sostanziale incremento di spesa pubblica nazionale che si è potuto realizzare per far fronte all’emergenza Covid è stato possibile solo grazie alla risoluta azione della Banca centrale europea, con il suo programma straordinario di acquisti di titoli del debito legati alla pandemia, e con l’accordo politico su Next Generation Eu, che pone le basi per una nuova solidarietà europea.
Certo non sfugge il fatto che l’opinione pubblica, alla quale è stato raccontato per anni che il vincolo di risorse pubbliche era insormontabile, resti disorientata rispetto alle centinaia di miliardi di euro piovuti sul sistema economico dal marzo 2020 in poi. E’ però evidente che tale situazione di massimo sostegno pubblico al sistema economico non può durare all’infinito, sia per un tema di sostenibilità, sia per le distorsioni che, alla lunga, rischia di creare rispetto agli incentivi individuali.
Per queste ragioni, l’economia sociale di mercato può rappresentare il modello giusto da adottare nel contesto post-pandemico, quando saranno ridimensionati i sostegni pubblici a pioggia legati all’emergenza Covid. Un punto di partenza importante a questo riguardo è la decisione presa sul Next Generation Eu, che ha fatto fare un balzo in avanti al processo d’integrazione e ha invigorito il sentimento europeista dei cittadini. Ecco, nell’immaginare il nuovo modello di economia sociale di mercato europea abbiamo bisogno del coraggio del “momento Merkel” che, da grande statista qual è, ha dimostrato di saper guardare avanti, mettendo da parte gli interessi particolari per governare l’incertezza del presente e del futuro.
Le misure da assumere dovrebbero dunque essere delle vere e proprie iniziative progettuali europee, decise, controllate, finanziate a livello di Unione, e atte a soddisfare la crescente domanda di beni pubblici europei: ambiente, sicurezza dei processi produttivi, salute, grandi reti digitali e di trasporto, immigrazione, difesa comune. Sembra un’utopia, ma a ben guardare non siamo in realtà molto lontani da questo scenario. La lettura trasversale dei Piani nazionali di ripresa e resilienza recentemente approvati mostra un forte grado di convergenza sui grandi capitoli di spesa. La domanda di beni pubblici europei è insomma già presente tra i cittadini.
Per continuare a finanziare tutto ciò l’Unione dovrebbe ricorrere all’emissione di bond, in continuità con le emissioni fatte per finanziare il Next Generation Eu e il Sure, in modo da mantenere un solido rating AAA al debito mutualizzato. Anche perché è abbastanza irrealistico immaginare che una volta abituato il mercato finanziario all’emissione di debito di alta qualità per volumi simili a quelli annuali della Spagna si possa di punto in bianco cessare tale emissione. Del resto lo abbiamo già visto: il “Quantitative Easing” monetario da straordinario e “non-convenzionale” è diventato oggi uno degli strumenti a disposizione delle banche centrali.
Perché tale scenario possa completarsi in un’adeguata cornice politica occorre poi portare a termine il processo di integrazione europeo attraverso l’istituzione di un ministro europeo delle Finanze, un’effettiva unione bancaria e dei capitali, rafforzare il bilancio comune dell’Unione e, non da ultimo, dare una rappresentanza unica esterna. Per tale via si garantirebbe il rilancio della competitività e si stimolerebbe la creazione di beni pubblici europei decisi strategicamente ex ante e coordinati a livello centrale, e non solo come risultato ex post eventuale e asimmetrico delle singole politiche degli stati membri.
La nuova economia sociale di mercato in Italia
La nostra stella polare deve, dunque, rimanere la costituzione economica materiale, oltre che formale dell’Europa, che s’ispira all’economia sociale di mercato e al miglior riformismo che ha portato l’Europa alla prosperità nel secondo dopoguerra.
A questo riguardo è ora che l’Italia assuma un atteggiamento maturo in seno all’Unione europea, di “convergenza competitiva”. Convergenza competitiva significa, da un lato, il rifiuto della concorrenza sleale tra paesi, a partire dalla chiusura di parti importanti del nostro sistema economico al mercato, insieme all’impegno deciso a difendere gli interessi legittimi del nostro paese, tanto nella fase di definizione delle regole e dei principi, quanto in quella di attuazione di questi (la concorrenza fiscale olandese è solo un esempio). Infine, attenzione nel non caricare il nostro sistema di oneri inutili e costosi.
Il nostro paese è caratterizzato da un intreccio del tutto originale nel quadro europeo e internazionale delle dinamiche economiche e dei processi sociali, con capacità industriali d’eccellenza e patrimoni culturali diffusi e distribuiti sul territorio, con una vena creativa inesauribile e una forte capacità d’adattamento collettivo e individuale alle incertezze. Prova ne è, anche, la forte volontà di risalita dopo la pandemia. Al tempo stesso è un paese minato dall’accumulazione di risparmio sottratto all’economia reale e agli investimenti; da sacche territoriali e settoriali d’inefficienza produttiva e di diseguaglianze salariali; dall’inconsistenza della macchina amministrativa pubblica; dalla crisi demografica e di confidenza nel futuro, figlie di un decennio di mancata crescita di occupazione e di reddito.
Spetta alla politica creare le condizioni affinché le spinte riformatrici si affermino sullo spirito di conservazione, dimostrando che è possibile avviare una stagione che, partendo dal superamento della crisi determinata dall’emergenza sanitaria, affronti i nuovi paradigmi che si affacciano al Terzo millennio. In altre parole, spetta alla politica accompagnare la società e l’economia italiane nelle nuove transizioni che progressivamente vanno sostituendo la spinta propulsiva della globalizzazione. In uno schema di nuova economia sociale.
Ma per la portata delle sfide che abbiamo davanti non sarà sufficiente fare conto sulla sola mano pubblica, non basteranno sussidi e bonus pubblici per sfide come la riqualificazione energetica o la transizione digitale, così come, allo stesso modo e nella stessa misura, non sarà sufficiente confidare solo sul mercato e sulla sua capacità d’innovazione tecnologica. Servirà un intreccio innovativo di regole e investimenti pubblici e di comportamenti e investimenti privati, facilitati dalla crescita di attenzione e sensibilità da parte di tutti ai temi dello sviluppo sostenibile. Si tratta, per il momento, poco più che una parola d’ordine, un riferimento ancora astratto che deve tradursi in fatti, processi e soggetti concreti ed è responsabilità politica e di governo garantire il passaggio dallo slogan alla realtà.
Un ultimo punto, su cui l’impostazione dell’economia sociale di mercato con la sua attenzione alla persona è chiave, è legato al fatto che nelle transizioni, del passato come del presente, si allargano e si aggravano le diseguaglianze. Tra territori, tra condizioni socio-economiche delle famiglie, tra imprese. Diseguaglianze che ci pongono davanti e in prospettiva nuove tensioni sociali, sacche di rancore e di disillusioni, che ritardano l’attuazione delle riforme e, spesso, impediscono di coglierne tutte le opportunità ove si lasica prevalere l’interesse immediato del facile consenso politico. Anche per questo serve una nuova politica.
Per i motivi finora elencati occorre dunque oggi e domani saper dire tanti no e tanti sì. No allo statalismo, al protezionismo, a nuove forme d’intervento dello stato in economia; no alla politica economica fatta di spesa “cattiva” finanziata col debito; no agli schematismi rigoristi di finanza pubblica che, mai come oggi, sono marginali rispetto all’equilibrio globale. No a nuove tasse e a un fisco oppressivo, ma no anche alla panoplia delle tax expenditure.
Sì, invece, all’apertura dei mercati, al mercato interno dei servizi da opporre al conservatorismo dei vari sindacati e corporazioni; sì a una riforma del Patto di stabilità e crescita, con “trattamento speciale” per promuovere gli investimenti; sì a rendere permanente il Next Generation Eu, non per trasferimenti tra paesi, ma per soddisfare la domanda di beni pubblici europei; sì a politiche responsabili di bilancio, che puntino alla sostenibilità di medio-lungo periodo del debito pubblico con un percorso di rientro che non vada in conflitto con gli obiettivi di crescita. Sì a un Welfare sostenibile, che ci porti verso una nuova Mitbestimmung, con un patto per l’occupazione e la coesione sociale che svicoli dal dibattito polarizzato attorno al nodo divisivo del blocco dei licenziamenti, e punti alla messa in campo di politiche attive e contestuali riforme dei sistemi di protezione sociale, con il contributo del settore privato. Sì, dunque, a dare finalmente attuazione all’articolo 46 della Costituzione con una legge in materia di partecipazione dei lavoratori e democrazia economica in modo da superare alla radice, in una prospettiva di economia sociale di mercato, le spinte conflittuali che ancora tanto incidono sulla qualità delle nostre relazioni industriali. Sì a un patto per l’efficienza del mercato del lavoro (pubblico e privato) che rispristini la piena agibilità delle tipologie contrattuali flessibili, che sono i principali strumenti con cui le imprese reagiscono alla crisi (lavoro a tempo parziale, apprendistato, lavoro a termine, lavoro tramite agenzia); sì al ruolo dei “facilitatori” del mercato del lavoro, che non possono essere i soli centri pubblici per l’impiego, ma anche le agenzie del lavoro interinali e tutti gli attori privati accreditati.
Ciò significa, in pratica, trovare un equilibrio tra Welfare, impresa e famiglia. Un equilibrio nuovo dove tutte queste componenti possano ciascuna giocare il loro ruolo per ridare certezze a una società incerta, restituire coraggio a operatori economici disorientati e impauriti. Solo se capaci di dire tanti sì e tanti no avremo la credibilità per accompagnare i processi di cambiamento in atto.
Per dirla diversamente, è bene che l’Europa della nuova economia sociale di mercato si appropri collettivamente dello spirito e dei progetti del Next Generation Eu, trasferendoli dalle decisioni dei capi di stato e di governo al quotidiano di tutte le imprese, dei corpi intermedi, dei lavoratori, dei cittadini e, in particolare, dei giovani. E’ un percorso che, grazie all’attuazione del Ngeu, insieme capillare e libera, non deve e non può calare dall’alto, pena un paternalismo fallimentare, ma deve attraversare il livello istituzionale e politico, toccando la classe dirigente incaricata di amministrare i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Passando alle agenzie formative e datrici di valori, dalle scuole alle università, alle famiglie, alle aziende intese come mondo produttivo non solo di merci, ma di rapporti interpersonali.
Soltanto così, attraverso la linfa della partecipazione, i Piani nazionali di ripresa e resilienza potranno diventare i catalizzatori di una rivoluzione sociale e culturale in grado di riscattare l’orgoglio individuale e comunitario. Chi ci sta a questo lavoro rinunci alle pose da custode della pietra filosofale e aiuti a far mettere i piedi a terra al sogno di un’Italia migliore, in un’Europa migliore.